28 marzo 2021

IL DILEMMA





Dopo molti anni ho riletto il romanzo "Ferito a morte" di Raffaele La Capria,Premio Strega nel 1961,nell'edizione rieditata da Mondadori.Un libro esistenziale,lo si potrebbe definire,perchè vi si parla di esistenze di gioventù agiate ma angosciate,in cerca del momento che dia significato e senso alle loro esistenze.Il momento che però sfugge sempre e che forse non si ha nemmeno il  "coraggio" di cogliere.Il libro è un classico della letteratura italiana del Novecento.Ancor più per chi è napoletano.Perché di Napoli parla il libro,del clima speciale che questa città ha offerto a chi l'ha vissuta.Si racconta di giovani "vitelloni" napoletani(il primo titolo del romanzo era "Leoni a giugno")appartenti ad una classe agiata ma non troppo,con un certo grado di cultura  e con la spregiudicatezza della gioventù,invischiata nel peso dei riti della tradizione.Massimo de Luca,il protagonista del romanzo,è l'incarnazione del dilemma di tutta la sua generazione,dei giovani leoni napoletani di quegli anni '60:se vuoi realizzare i tuoi sogni e le tue capacità non puoi restare in queste terre,non puoi restare a Napoli,ma partire è terribilmente difficile.Come si fa a lasciare quel mare,quel cielo,la famiglia,gli amori e gli amici,quell’atmosfera straziante,assieme dolce e amara nella quale sei nato e vivi?E mentre si affronta il dilemma,gli anni passano,i fallimenti pesano,la virtù e l’ambizione cedono il passo alla rassegnazione.E' ovvio che la vicenda raccontata da La Capria non riguarda solo i giovani napoletani,ma tutta la gioventù italiana di quegli anni;erano gli anni nei quali si cominciava ad uscire dall'ebrezza del boom economico e del miracolo italiano e ci si trovava,quasi senza accorgersene,in una società mutata e complessa,con tante tensioni e contraddizioni sociali ed economiche(in politica agli inizi degli '60 i socialisti entrarono per la prima volta al governo con la Dc,costuendo il primo centrosinistra,e in letteratura si creò il "Gruppo '63,di contestazione della cultura borghese).Le illusioni perdute di Massimo de Luca sono state in parte anche quelle di tanti che non hanno avuto il coraggio di lasciare Napoli e più in generale la tranquillità del quotidiano,per percorrere strade nuove e diverse.Forse  proprio questa è la cifra del romanzo:una strisciante depressione e disillusione,un'angoscia esistenziale.Che cozza ovviamente col mito fallace di un Sud allegro e ottimista e di una Napoli "pizza e mandolino"."Depressione" è termine ambiguo,perchè riguarda aspetti economici e psicologici.Un orizzonte privo di speranza dentro di te implica la difficoltà di ogni investimento in termini umani e vitali,nel senso proprio di una vita degna di essere vissuta.Da cui ne consegue un futuro opaco che genera ulteriore tristezza e perdita del senso di sé.Di questo parla l’inizio folgorante di Ferito a morte,quando la spigola a portata di fucile subacqueo e tuttavia non presa istituisce la metafora della "occasione mancata".Occasione mancata che ripete quella dell’indimenticabile atto incompiuto con Carla,la donna amata da Massimo.Dopo tanti anni dalla prima lettura,il libro di La Capria ancora oggi emoziona e fa pensare.Il dilemma di "Ferito a morte" può essere riassunto nell'antico detto latino di Ovidio:"nec tecum,nec sine te vivere possum"("non posso vivere né con te,né senza di te").Se si vuole veramente capire più a fondo se stessi,bisogna avere il coraggio di mettersi nei panni di chi,come il protagonista del romanzo,Massimo de Luca,ama e contemporaneamente odia la "sua" Napoli,ritenendola,come una madre freudiana,fonte di gioia e di sofferenza.Per avere la realizzazione e la pienezza di te dovresti lasciare la "Foresta Vergine",la metafora splendida con cui La Capria battezza Napoli.Ma andarsene vuol dire perdere irrimediabilmente identità e certezze.Questa sono i confini dentro i quali vive il protagonista del romanzo nel quale il suo destino è inesorabilmente legato a quello degli altri giovani napoletani,abitatori della Foresta Vergine.Capire se stessi per capire anche quali siano i modi possibili per aiutare chi intenda assumersi il compito di governare Napoli e più in generale l'Italia.La risposta del dilemma è favorire,per quanto possibile,la realizzazione del sé senza la perdita dell’identità.Il che vuol dire spostare,a Napoli,al Sud,e più in generale in Italia,come parti dell'unico Villaggio Globale,nell'ambito di una economia mondiale e di un moderno mercato del lavoro digitalizzato,attività e opportunità di lavoro moderno e innovativo,in modo che i più capaci,volenterosi e dinamici non debbano necessariamente partire come Massimo de Luca vorrebbe ma non riesce a fare.Nell’era digitale forse capitale umano locale e grandi mercati globali si possono congiungere senza troppo muovere le persone. E puoi lavorare a Shanghai o a New York,standotene seduto a guardare,per parafrasare il libro dell'altra scrittrice,Annamaria Ortese, che di Napoli scrisse:"il mare che bagna Napoli".

19 marzo 2021

NUOVE POVERTA'





I dati forniti dall'Istat sui poveri assoluti in Italia sono impressionanti:5,6 milioni;un milione in più del marzo dell'anno scorso,quando il Covid era ancora una minaccia.Vuol dire che oggi quasi un italiano su dieci(il 9,4% della popolazione)fatica a far fronte ai bisogni essenziali: mangiare,curarsi,coprirsi se è freddo.Per non dire delle bollette e dei mutui.Sono numeri che nell'immediato ti impressionano,ma che poi,poco a poco,ti scivolano via,li scarichi dalla mente,e magari dalla coscienza.Dietro a ciascuno di quei numeri c'è una storia:un uomo,una donna,un bambino,un anziano,con i loro problemi e drammi quotidiani.E dopo i tanti,troppi poveri che già c'erano,adesso ce ne sono altri ancora,quelli che già facevano fatica e che il covid adesso ha gettato nel girone infernale della povertà.Così,come chi già in quel girone infernale c'era già,anche loro,adesso,son costretti a mettersi in fila nei posti dove ti danno un sacchetto di cibo gratis(ad esempio quelli della Caritas)dei vestiti o medicine,tutti "lussi",che ormai non possono permettersi più.E certamente provano vergogna a ritrovarsi lì,con la mano tesa,obbligati a chiedere,scivolati,quasi senza accorgersene,tra una bolletta o un affitto che si fatica a pagare,sotto la soglia che li divide da quelli che arrancano ma ancora resistono:gli italiani del gradino appena sopra,classificati nella categoria:"povertà relativa".Anche quelli,però,sono una fascia in allargamento(8-9 milioni di persone)che vivono in una vita ogni giorno più precaria,dove la battaglia per una vita dignitosa è quotidiana e non sempre la si vince.E in quei numeri ci sono anche bambini e ragazzi che,per le situazioni di necessità delle loro famiglie,altro che didattica a distanza,loro le scuole rischiano proprio di non finirle,candidati a un futuro senza futuro.La pandemia ha accelerato brutalmente il processo di impoverimento.Redditi decurtati,o in via di estinzione(quando terminerà il blocco dei licenziamenti)esercizi commerciali chiusi e chissà quando e se riapriranno.Salto in basso dal precariato alla disoccupazione.Sempre più indigenti che si presentano ai servizi sociali e alle mense della Caritas per chiedere un aiuto:lavoratori saltuari e irregolari,lavoratori in nero che proprio per questo di indennizzi e cassa integrazione non potranno mai beneficiare,e anche quelli che potrebbero fruirne,dopo mesi non hanno visto un solo euro.Vecchi e nuovi poveri.Sono stati promessi aiuti economici dal governo e dall'Europa.Ma anche questi aiuti non basteranno  per impedire una drammatica crisi sociale.E non basterà l’impegno incredibile delle associazioni no profit,che stanno facendo l’impossibile per alleviare le sofferenze di un numero sempre crescente di sofferenti e bisognosi.E non basteranno redditi di cittadinanza o di emergenza,anche se utili nel breve periodo,ma inevitabilmente a tempo.C’è una frase di Ermanno Olmi,scrittore e regista degli umili e degli ultimi,che bisognerebbe tenere sempre a mente."Occorre andare a scuola di povertà per contenere il disastro che la ricchezza sta producendo".Quella ricchezza fatta di arrivismo,spregiudicatezza e affarismo  che non si è fatta scrupoli di lucrare anche sulla pandemia,facendo affari nella vendita di mascherine e altro materiale sanitario di cui la gente fa uso in questo tempo di angoscia e necessità.Una ricchezza che offusca valori e ideali.Una ricchezza che sta producendo guasti profondi che i numeri dell’Istat non riescono a rendere.E' un altro virus,un’infezione sociale che sta "contagiando" troppi italiani a danno di tanti altri italiani.Dall'Europa stanno arrivando fondi per far far fronte alla crisi economica che il virus ha provocato.Tra questi ce ne dovrebbe essere uno dedicato alla voce:"Progetto dignità per la povertà.Per non abbandonare una parte del Paese alla deriva".Quella parte di Paese è il Mezzogiorno d'Italia che,come sempre,paga i costi più alti.Ma in questo nuovo e inedito tempo,ormai è tutta l'Italia in sofferenza,perchè la pandemia dell’indigenza ha rotto gli argini geografici, e da questo punto di vista non esistono più zone bianche.Finché quelli dell'Istat rimangono numeri,grafici e tabelle,la povertà indigna ma non impegna.Ed ognuno di noi rimane chiuso nei recinti dei propri egoismi.Ma il guaio è che quella povertà rischia di esondare fuori dagli argini e allora il problema non è più soltanto umanitario.E',invece,una vera e propria bomba sociale che può esplodere nelle strade del Paese.Ed è perciò qui che deve orientarsi l’orizzonte delle scelte di un governo.Tenere il Sistema Paese,farsi carico soprattutto dei problemi di queste fasce di popolazione.Fare "whatever it takes",a ogni costo e subito,per attutire,nell'immediato,l'impatto economico dei bisogni e della sopravvivenza quotidiana.Ma subito dopo occorre che il Governo parli un linguaggio nuovo,guardando negli occhi questo Paese impaurito,smarrito e senza bussola.Occorre spiegare qual'é la rotta che si vuole impostare per portarlo in salvo e forse allora tutti riacquisterebbero un minimo di fiducia e i primi sarebbe proprio la gente che la rotta teme di averla già persa,che si sentono abbandonati,che hanno smesso di crederci.E' tanta quella gente,sono un numero grande,sono 5 milioni 600 mila,un numero enorme,composto di singoli addendi,e ogni addendo è una storia,un cittadino,con gambe,testa e cuore.La disperazione di questi tanti è,per ora,muta e invisibile.La terza ondata del coronavirus sta già peggiorando ulteriormente le aspettative che pure ancora nutrono dalla vita.C'è bisogno,perciò,che lo Stato,con una concreta azione,dia dare loro coraggio,che li faccia sentire parte del piano,protagonisti di un progetto di società solidale,di una umanità nuova e onnicomprensiva,di istituzioni sempre all'ascolto dei bisogni e pronta a dare risposte concrete.Queste non sono,non devono essere "buone azioni".E' semplicemente un preciso obbligo politico di uno Stato nei confronti di ogni cittadino in ogni momento,indipendentemente dal fatto che si stia vivendo una situazione d'emergenza come questa.Ed è il diritto per tutti i cittadini di non essere ignorati.

10 marzo 2021

L'ITALIA DI UN ANNO FA

Era una parola che non conoscevamo,o tutt'al più che avevamo sentito nei Tg che raccontavano che in Cina stava accadendo qualcosa,c'era una strana infezione che proveniva da topi o pipistrelli.Ma la Cina è lontana,ci dicevamo,cosa vuoi che sia,un problema "loro" quel "coronavirus",ecco la parola.Ma poi quel virus arrivò anche in Italia,e conoscemmo i nomi dei paesi di Codogno e Vò Euganeo,in Lombardia e Veneto,dove per prima arrivò quel virus,il coronavirus,dove ci furono i primi contagiati e i primi morti.E per colpa di quel virus.or giusto un anno fa,conoscemmo un'altra parola,facemmo una nuova esperienza di(non)vita che mai avevamo vissuto prima:lockdown era quella nuova parola,che voleva dire chiusura totale e generale delle vite singole e di una Nazione.E vennero i Dpcm,e vennero gli hashtag #iorestoacasa e #insieme ce la faremo e #andratuttobene,convinti come eravamo che sarebbero bastate poche settimana di sacrificio e poi saremmo tornati alla vita di "prima".Come poi è andata lo sappiamo bene.Ma adesso che un anno è passato,che non è ancora finita,che non è andata per niente tutto bene,che più di 100.000 persone sono morte e che questa vita "chiusa" continuiamo a vivere,fatta di drammi economici ed esistenziali,le immagini di un anno fa ci tornano negli occhi,al cuore e alla mente riproducendo oppressione e angoscia di vita incerta e indefinita.E,come sempre,sono le immagini che "parlano" più di qualsiasi parola,anche perchè forse parole non riusciamo più a trovare e a dire,difronte a questo tempo in cui quasi sembra che il buon Dio abbia dimenticato i suoi figli,se non fosse,in realtà,che questi suoi figli già da tempo avevano dimenticato il loro Padre.

Codogno e Vò Euganeo,dove tutto ebbe inizio:





Ci dicemmo che comunque sarebbe andato tutto bene
 


E invece gli ospedali e le terapie intensive si riempivano e la gente,gli anziani anzitutto,morivano soli in ospedale,senza poter vedere nemmeno nell'ultimo istante,i propri cari:


E nelle RSA e nel "Pio Albergo Trivulzio",ci fu la strage degli innocenti,la morte degli anziani


E medici e infermieri,masssacrati da giorni e giorni di lavoro ininterrotto, non reggevano alla fatica e ai drammi che si consumavano sotto i loro occhi.In questa foto,diventata ormai storica,un'infermiera crolla stanca dopo una giornata di lavoro



Medici e infermieri,che pure erano soliti vivere nel mondo del dolore,non ce la facevano più,soprattutto quando vedevano spegnersi una vita tra le loro mani 


E ci fu "quella" notte.La notte dell'immensa tragedia di Bergamo:una interminabile fila di camion militari portava via tante vite finite



Il Papa,in una Piazza San Pietro allucinantemente deserta,pregò Dio per la fine della pandemia,affidando il mondo a Maria:  





E il Presidente Mattarella,la massima autorità laica del Paese,celebrò il senso delle Istituzioni e dello Stato difronte alla pandemia,recandosi solitario il 2 giugno all'Altare della Patria,giorno dell'Italia unita e repubblicana




Era questa l'Italia di un anno fa.E' ancora questa,purtroppo,l'Italia,che viviamo di questi nostri giorni fatti di dolore ed angoscia .E chissà quando torneremo a un tempo relativamente "normale",a ritrovar parole che mondi nuovi possano aprirci,quelle che oggi,non possiamo,non sappiamo dirci,come Montale già sapeva












09 marzo 2021

IL MINISTERO DELLA SOLITUDINE



Poteva sembrare una suggestione tratta da un romanzo letterario,del tipo "Cent'anni di solitudine" di  Gabriel Garcia Marquez.Ed invece quello che è stato chiamato il "Ministero della Solitudine",esiste davvero:lo creò qualche anno fa l'ex Premier inglese,Theresa May.Un "Minister for Loneliness",che si occupa di quello che le autorità sanitarie già allora consideravano una questione nazionale:milioni di persone che vivono ai margini,sole,senza relazionamenti sociali e umani,soprattutto anziani che trascorrono settimane senza incontrare nessuno,ma anche giovani che vivono problematiche di disagio sociale.Il vivere soli è considerato un fattore che genera numerose malattie,a cominciare dalla depressione,ma anche cardiopatie e neuropatie,ed è quindi un problema di salute pubblica.A lanciare per prima la richiesta di un'iniziativa di questo tipo fu Jo Cox,la parlamentare laburista assassinata da un fanatico xenofobo di estrema destra alla vigilia del referendum sulla Brexit.La Cox aveva compreso la gravità del problema della solitudine e si era spesa personalmente e politicamente per sradicarla.L’obiettivo era quello di riformare le comunità,dando priorità alla salute mentale,all'assistenza domiciliare agli anziani,ma anche allo sviluppo di politiche giovanili,perchè anche i giovani vivono il problema.Erano tempi "normali" quelli in cui la Cox parlava della solitudine.Poi è arrivato quest'altro tempo,il tempo della pandemia,che ha portato morte e crisi economica,ma anche un qualcosa prima sconosciuto,che è il lockdown.Già,il lockdown.Un tempo chiuso e recluso,di isolamento e confinamento,uno stato fisico e psicologico,una nuova e diversa forma di solitudine:l'assenza di contatti sociali e relazioni personali con amici,parenti,vicini;l'assenza di una comunità di discussione reale,con la quale scambiare sentimento e vissuto quotidiano.L’isolamento sociale rappresenta l’aspetto tangibile della separazione fisica e di interazione con l'altro.Un tempo che mai più dimenticheremo.Un tempo delle "prime volte":la prima volta dello smartworking e didattica a distanza(DAD).La prima volta in cui ci privano della libertà di disporre del nostro spazio e del nostro tempo,rimanendo appesi all’ennesimo DPCM che decide al posto nostro se,come,quando e chi incontrare.Ed è per questo che,per fronteggiare queste nuove solitudini,anche in Giappone è stato creato un “Ministero per la Solitudine”.Erano già anni che i governi di Tokyo stavano cercando di dare risposte a problemi sociali che pesano sulla popolazione.Problemi tra loro tutti connessi:l'assenza di relazioni tra i cittadini;l’altissimo tasso di suicidi anche giovanili;il declino demografico e l’invecchiamento della popolazione.La pandemia ha peggiorato tutto.Già il modello economico che il Giappone si è dato,all’inizio degli anni '80,aveva trasformato la società:in essa il lavoro veniva prima di tutto:gran parte della giornata di un giapponese medio è di  lavoro,con quasi 80 ore lavorative settimanali.L’ex primo ministro Shinzo Abe aveva cercato di riformare questo modello,cercando di limitare i tempi di lavoro,rimettendo il cittadino al centro,cercando di far capire la necessità di riappropriarsi di spazi e tempo libero,e quindi di sentirsi meno soli.Il virus ha accelerato tutto e la creazione del Ministero della Solitudine,è arrivata dopo gli ultimi,allarmanti dati sui suicidi e degli effetti che l’isolamento dovuto alla pandemia ha avuto sulla popolazione.Soprattutto violenze sulle donne e disagio infantile e giovanile per la negazione di spazi e tempi esistenziali.Perchè la solitudine fa elaborare idee negative:quando un dolore ci lacera,sentiamo il bisogno di cercare qualcuno con cui parlare,per trovare qualche parola di conforto.Ma la pandemia ha imposto distanze e lontananze e ci vieta anche questo "comunicare",che Gadda chiamerebbe la nostra "Cognizione del dolore".Così il dolore rimane dentro,aggravando il senso di solitudine.I più esposti alla solitudine sono i giovani e gli anziani.Con la chiusura delle scuole,i ragazzi hanno avuto,come interlocutori,solo il loro telefonino e i “social”,ma di certo non si può chiamare “socializzato” chi rimane davanti al computer per ore e ore.Proprio in Giappone,la prima causa di mortalità giovanile è rappresentata dall’ Hikikomori: Hikikomori  è la sindrome che colpisce quegli adolescenti che vivono reclusi nella loro casa o nella loro stanza,sempre attaccati al computer,senza alcun contatto con l’esterno.E poi ci sono le persone anziane,le più esposte alla solitudine.Ora ben venga un Ministero della Solitudine che si occupi di queste problematiche.Ma la solitudine è qualcosa di più.È l’esperienza della propria insignificanza sociale quando hai l’ impressione di non interessare a nessuno,e raccogli al massimo un gesto di gentilezza in questa società,dove le persone passano vicine al prossimo come si passa vicino ai muri.In una simile condizione nessuno ti vede e nessuno ti guarda.E quell'assenza di sguardo diventa ancor più tragica quando in una coppia uno dei due se ne va e ti lascia solo al mondo,perché nessuno più ti restituisce quello che con lui o con lei hai condiviso.Soprattutto perchè hai perso il testimone della tua vita perché, in fondo,tutte le cose che facciamo nella vita,le facciamo perché uno sguardo le accoglie e le testimonia.Quando un testimone non c'è,si perde anche la motivazione,la voglia di essere e di esserci,che sono gli ingredienti della vita stessa.E qui la solitudine ti si offre in tutta la sua abissalità.E non c’ è parola o Ministero che possa lenirla.


Anche Fabrizio De Andrè,nella canzone scritta con Ivano Fossati "Anime salve" ha fatto un "elogio" della solitudine: