18 giugno 2021

ADDIO PRESIDENTE !







Fra qualche giorno,il 4 luglio,avrebbe compiuto 93 anni.E invece Giampiero Boniperti se ne è andato prima,nel giorno 18 del mese di giugno dell'anno 2021.Giocatore prima,presidente poi della Juventus,aveva nel cuore e nell'anima il nome di questa squadra.Diceva:"la Juve non è la mia squadra del cuore,la Juve E' il mio cuore".Ecco,Si potrebbe dire che Boniperti equivale a dir Juve,e che Juve equivale a dire Boniperti,quasi come se i due nomi fossero sinonimi.Boniperti è stato la Juventus.Ed è sempre lo è stato nella memoria e nell'immaginario di tante generazioni di tifosi.Di quelli che dal 1946 lo videro cominciare come calciatore nel favoloso trio Charles-Sivori-Boniperti,fino al 1961,quando,dopo 444 partite e 178 gol,decise di smettere di giocare.Ma era impensabile che lui e la Juve potessero stare lontani.Così nel 1971 Boniperti fu chiamato dalla famiglia Agnelli per ricoprire ruoli dirigenziali alla Juve diventandone poi presidente:con lui i bianconeri conquistarono 9 scudetti,2 Coppe Italia,1 Coppa dei Campioni,1 Coppa UEFA,1 Coppa delle Coppe e 1 Coppa Intercontinentale.E ancora oggi,le nuove generazioni di tifosi juventini capiscono subito che quando parli di Juve,non puoi fare a meno di parlare di Giampiero Boniperti.Perchè,nonostante tutto,il mondo del calcio ma non solo,il "Mondo Juve",ma non solo ne riconoscono,lo stile,la grandezza e la signorilità del calciatore e ancor più dell'uomo.Per uno juventino lui era il Santiago Bernabeu italiano,perchè,come il leggendario presidente del Real Madrid,ha segnato un’epoca.Prima quella scintillante,povera ma felice tra i '50 e i '60,quella di una Italia rinata dopo la guerra,il dolore del Grande Torino,lo sport come riscatto e speranza per milioni di persone.La felicità di quel tempo pareva inattaccabile,e Boniperti diventava il calciatore italiano più moderno e completo dopo Meazza.Boniperti fu giocatore enorme,ma è come presidente che divenne ancor di più.Gli Agnelli lo vollero al comando della Società,e Boniperti fu per la Juve e per l’Avvocato quello che Vittorio Valletta era stato per la Fiat.Più di un primo ministro:un re,sottoposto al solo volere dell’imperatore.E per Gianni Agnelli,Boniperti fu "lo juventino più juventino di tutti".Dell'uomo resteranno immagini indelebili.Lui che scappa dallo stadio dopo il primo tempo,lui che faceva firmare contratti in bianco mostrando ai calciatori le fotografie delle loro sconfitte,facendo capire che era il caso di abbassare le pretese economiche.Anche se si trattava di gente che si chiamava Paolo Rossi o Tardelli.Quello di Boniperti in materia di calcio,si potrebbe dire che è stato un magistero.Un magistero,una lezione di accortezza,di buona amministrazione e di intelligenza,figlio del Piemonte moderno,da dove è partita l’Unità d’Italia,da dove partì,con la Fiat,il "boom economico",il nuovo miracolo italiano.Un magistero che si ruppe quando sulla scena del calcio italiano apparve un altro protagonista,Silvio Berlusconi,che capì per primo che il calcio stava per divenire lo show più redditizio dei canali televisivi sul quale,perciò,valeva la pena spendere quantità di soldi inaudite rispetto ai tempi precedenti,tempi in cui Boniperti guardava,invece,a proporzionare la spesa al risultato,per far quadrare i bilanci.Il passaggio del testimone avvenne quando il giovane  e promettentissimo calciatore Roberto Donadoni passò dall'Atatalanta al Milan,nonostante l'accordo già raggiunto tra Boniperti e i dirigenti bergamaschi.Ma poi arrivò Berlusconi che buttò sul tavolo molto di più dell'offerta di Boniperti e prese Donadoni.Era finita un'epoca:gli accordi sulla parola non significavano più niente.Boniperti era stato battuto sul suo terreno,quello di scovare per tempo i talenti migliori,avvistati e scovati alle loro prime mosse:da Gentile a Cabrini,da Scirea a Causio,da Cuccureddu a Capello,da Bettega a Tardelli,da Del Piero a capitan Furino.Capace,però,di comprare grandi campioni come Zoff,Platini,Boniek.Era uno degli ultimi simboli di un calcio che non c’è più.Un calcio nel quale non c'era ancora la brutta genia di avidi procuratori.Un calcio fatto di “bandiere”,di giocatori che alla maglia ci tenevano,come bandiera fu lui stesso con la maglia bianconera.Lui che aveva coniato quella frase scultorea:"Vincere non è importante,è l'unica cosa che conta".Ai tempi di Boniperti non si contrattava,non c'erano procuratori rapaci.Niente Raiola,Mendes e le loro corti dei miracoli.Boniperti ha sfiorato i 93 anni,dopo una vita piena di carisma,di calcio,soprattutto piena di Juventus.Ma l’iconicità della sua figura è rimasta immutata nell’anima del popolo bianconero anche quando si era ritirato a vita privata.Il suo amore per quei colori,sono gli stessi di quel ragazzo che aveva sempre sognato di giocare con la Juventus.C’era una volta,e ci sarà sempre,Giampiero Boniperti, lo juventino del secolo.






07 giugno 2021

"DON" RAFFAELE DE CARO


Ne son passati 60 di anni,da quel giugno 1961,da quando,improvvisamente se ne andò per sempre.Lasciò il suo PLI,lì a Torino,dove i liberali italiani erano riuniti per celebrare i 100 anni dalla morte di Cavour.E da Torino fu portato nella sua amata Benevento,dove tanta gente in lacrime aspettava "don Raffaele",come a lui semplicemente piaceva essere chiamato.Era in lacrime,quella gente,perchè,"don Raffaele" era uno di loro,il loro punto di riferimento e a lui ricorrevano per ogni difficoltà morale e materiale.E lui partecipava alle loro vite,con quei gesti umani che dovrebbero essere istintivamente connaturati alla politica.Ai più,e alla miserevole politica di questi giorni nostri,probabilmente il suo nome non dirà niente.Ma per i liberali italiani,e ancor più per noi liberali sanniti,il nome di Raffaele De Caro,dice molto,dice tanto:ci racconta del suo rigore morale,della sua intransigenza antifascista,della sua coerenza ideale e politica e ci dice di come un uomo e un politico deve essere,di come un'ideale va costantemente perseguito senza mai giungere a compromessi.In tempi come questi,fatti di opportunismi e trasformismi politici,non è retorico o nostalgico ricordare Raffaele De Caro.Perchè,anzi,ricordarlo significa avere la consapevolezza che,difronte all'attuale panorama politico da oltre 20 anni caratterizzato dalla fine dei partiti,dalla morte delle ideologie e dalla scomparsa del senso del dovere istituzionale di cui erano pervasi i grandi protagonisti dell’Italia repubblicana,che c’è stato un tempo in cui la lotta politica era fatta da uomini di diverse tendenze,ma tutti accomunati da una reale ricerca del bene comune.In particolare nel Mezzogiorno d’Italia,dove sembra che la “malabestia” dell’assistenzialismo,per dirla con don Luigi Sturzo,faccia continuamente ritorno.Ed è proprio dal Mezzogiorno d'Italia,che mai ha vissuto nella ormai lunga stagione repubblicana,lunghi periodi di serenità,che va ricordata la figura esemplare,sotto ogni punto di vista,di Raffaele De Caro,la cui integrità morale e la cui passione(parola così assente oggi nella politica italiana)fu vissuta in maniera tanto grande da acquistare stima e rispetto anche tra i suoi avversari politici.E a De Caro molti altri,di diversa fede politica,se ne potrebbero aggiungere,perchè "prima" la parola politica si scriveva con la lettera maiuscola.Perchè "prima" tutti,comunisti,democristiani, liberali,socialdemocratici,repubblicani e persino i missini andavano tra la gente per conquistarne la fiducia con le idee,con una fede incarnata nei loro esponenti:De Gasperi,Togliatti,Saragat,La Malfa,Malagodi,Almirante,sono questi i nomi che ancora oggi,a prescindere dal pensiero di ciascuno,rievocano passione,coerenza,impegno,rispetto reciproco,e De Caro era uno di loro,dapprima come combattente al fronte,col suo cappello di bersagliere che conservava gelosamente,poi come teorico del pensiero liberale e infine per quasi un quindicennio come Presidente del Pli,subentrato nel 1947 a Benedetto Croce.Il suo modo di pensare e fare politica esercitò una grande influenza morale ed era sinonimo di impegno ed etica del dovere;rispetto verso lo Stato e i cittadini,soprattutto quelli delle classi più umili.Fu perciò che nel Sannio conquistò al PLI una mole di consensi straordinari che contribuirono a lungo a farne un soggetto protagonista della ricostruzione post-bellica.Giovane deputato prima del fascismo,fu membro della Costituente,sottosegretario e ministro,uomo di partito,interpretò il suo ruolo di politico meridionale avversando tutti quelli che si proponevano di lucrare sul disagio di regioni che non avevano beneficiato dell’unificazione statuale."Don" Raffaele fu,insomma,un vero e proprio statista che tanto prima del ventennio fascista,e dopo,con l'avvento della Repubblica,incarnò un’idea talmente alta della politica da diventare riferimento per molte generazioni di cittadini a prescindere dalle appartenenze.Avvocato di grande valore,liberale autentico e meridionalista tutt’altro che dedito al clientelismo,non esitò a schierarsi dalla parte dei perdenti,aderendo,nel 1924,con altri esponenti antifascisti alla secessione dell’Aventino,perdendo,così,il suo scranno parlamentare,per restare fedele ai suoi ideali che gli valsero a Benevento e nel Sannio,dove nacque nel 1883,un rispetto generale,anche da parte dei più facinorosi fascisti locali.E' immaginabile,in questo contesto,che un gigante del pensiero come Raffaele De Caro,nella politica italiana di oggi,si sentirebbe non solo a disagio,ma del tutto fuori luogo e soprattutto si stupirebbe di come,nei 60 anni dopo la sua morte,le idee e i valori abbiano potuto cedere tanto facilmente il passo alla corruzione e alla malapolitica.Ma ancor più si meraviglierebbe di come proprio i partiti e i loro capi siano riusciti a suscitare un così grande sentimento di disaffezione alla politica stessa,la quale,a sua volta,ne ha cavalcato la degenerazione fino a determinare quell’allontanamento di massa che ha dato spazio all'antipolitica.A ben pensarci forse la sua intensa vita politica ed umana,non poteva che finire in un solo modo:De Caro si spense a Torino nel giugno del 1961 dove si trovava per presiedere la cerimonia di commemorazione del conte di Cavour.Lui liberale meridionale e meridionalista,morì in Italia Settentrionale,nel Piemonte liberale,a Torino,la città del liberale Cavour,quasi per unire idealmente il Nord e il Sud d'Italia,che fu proprio una delle sue più grandi battaglie liberali.

06 giugno 2021

LA FORCA IN PIAZZA





La strage della funivia Stresa-Mottarone nella quale hanno perso la vita 14 persone,è stato un fatto che ha colpito profondamente tutto il Paese e che ha lasciato attonita e sgomenta l'intera comunità nazionale.Ma dopo quel primo sentimento,dopo la partecipazione collettiva al dolore delle famiglie,immancabile è scattato un altro sentimento:la rabbiosa ricerca dei colpevoli,una collettiva furia iconoclasta,una ancestrale voglia di linciaggio,ormai purtroppo ben radicata in una gran parte della popolazione italiana e di molta stampa di destra e di sinistra.Bastava dare un’occhiata ai giornali.Titoli a tutta pagina,più o meno identici,costruiti su 3 parole:"Avidi,criminali,colpevoli".Le tre persone arrestate su ordine del magistrato,venivano indicate,senza nessun bisogno di processo,come colpevoli,spietati sciacalli,avidi assassini,da punire senza tante discussioni,con pene severissime.Ma quello che più lascia allibiti è che la severità della pena veniva invocata  non da voce di popolo,ma da dichiarazioni ufficiali del Pubblico ministero,Olimpia Bossi.La quale,con incredibile disinvoltura,anticipava ogni fase processuale:l'inchiesta,il dibattimento,il processo,l'appello,l'eventuale Cassazione,stabilendo lei,a priori,la gravità delle pena.Senza parlare del suo profluvio di dichiarazioni,rese davanti le luci delle telecamere e la marea di microfoni che le paravano innanzi.In spregio aperto di tutte le disposizioni del Ministro,del P.G. della Cassazione,e delle direttive europee sulla presunzione di innocenza.Così il principio che tutti hanno diritto a un processo e che gli indiziati e gli imputati non possono essere ritenuti colpevoli,fa presto a scomparire.Insomma,tra opinione pubblica,stampa e magistratura,è stata una terribile gara a chi riusciva a innalzare più in alto possibile la gogna e la forca.Una gara,un’orgia brutale e sanguinaria di cui si nutre un’opinione pubblica compatta,in questo generale desiderio di linciaggio.Perchè il linciaggio è esattamente questo.È la giustizia che si esprime attraverso la violenza popolare e di massa.E' facile essere garantisti verso un ladro di mele.O anche,verso un politico.Quando invece si è in presenza di un reato molto grave,come un delitto di mafia,ma anche come quello della funivia,ogni garantismo sparisce e ti senti dire:"Ma hai visto che infamia hanno fatto?A che serve un processo?".E invece il garantismo è proprio questo.Tanto più grave è il reato,tante più garanzie vanno assicurate all’imputato.Anche se l'imputato si chiama Totò Riina o Giovanni Brusca.Purtroppo,in Italia,sempre più spesso,questo non succede.Stavolta lo spettacolo è stato davvero impressionante.Si è avuta la sensazione che chiunque non mostrasse orrore e schifo per i tre arrestati non poteva che essere complice del misfatto del Mottarone.Ma hanno diritto oppure no,i 3 imputati,a essere processati con umanità e in osservanza della legge e non degli anatemi?Sembra quasi che in questi casi la sentenza debba essere morale e non giuridica.Una sorta di applicazione del codice della Sharia,non delle regole del diritto.Se fossimo in un Paese normale,invece,dovremmo chiederci se è normale che una inchiesta sia diretta da un Pm che ha già deciso che la pena deve essere,non può che essere severissima?Eppure anche qui,come a Berlino,un giudice sembra esserci,e sta a Verbania.Si chiama Donatella Banci Buonamici e di mestiere fa il GIP(giudice delle indagini preliminari)anche se adesso anche lei sembra essere diventata complice dei presunti colpevoli e fatta oggetto di minaccia dai soliti leoni da tastiera.La Banci,invece,facendo "semplicemente" il suo mestiere,si è letta le carte, ha sentito i tre sospettati,e ne ha messo uno ai domiciliari e rilasciato gli altri due.Alla faccia dei tanti garantisti da talk show.Questa GIP,invece,rappresenta un caso concreto di rispetto della presunzione di non colpevolezza.La Banci non ha deciso che i tre sono innocenti:ha semplicemente ritenuto che l’Italia non è il Cile di Pinochet,e che non c’era alcun pericolo di fuga che giustificasse il fermo in carcere.Ha deciso,contro l’assatanato giustizialismo giornalistico e dell’opinione pubblica,che la pena non si paga preventivamente,ma dopo sentenza.E ha deciso che la chiamata in correità di un reo confesso deve essere supportata da fatti,da prove(quanto dovrebbe valere anche per i pentiti di mafia questo principio:il caso Tortora docet).Insomma,abbiamo trovato un giudice a Verbania e invece sui giornali e sul web è diventata la complice dei colpevoli.Dopo un processo i tre potranno anche essere considerati colpevoli.Ma la gente(e certa stampa)vuole qui e subito un colpevole,da processare in piazza o sulle prime pagine dei giornali.E questo la dice lunga sullo stato di barbarie giuridica e civile cui è giunto questo sciagurato Paese.