19 luglio 2025

QUI NON PUO' SUCCEDERE. O FORSE SI






90 anni fa,nel 1935,usciva in America il libro "It can’t happen here"(Da noi non può succedere)di Sinclair Lewis,primo scrittore americano a vincere il premio Nobel per la letteratura.Un libro che rientra nella categoria dei romanzi di genere distopico. 

Nel libro si ipotizza che alle elezioni del 1936 negli Stati Uniti   un leader populista,filofascista e filonazista, il senatore Berzelius (Buzz) Windrip,sconfigge il presidente uscente Franklin Delano Roosevelt,diventando il nuovo presidente del Paese.In campagna elettorale Windrip si era presentato come campione dei valori tradizionali americani,promettendo di riportare il Paese alla ricchezza ed al benessere,rendendo l’"America great again”(ricordano qualcosa queste parole?).In realtà la (resistibile)scalata al potere è stata resa possibile anche dall’acquiescenza della parte più evoluta della società americana, che a ogni gradino verso la dittatura,minimizza,rimuove e continua a ripetere “da noi non può succedere”, fino a che ci si accorgerà di essere ormai tutti in una trappola mortale e che sì,anche in America,il Paese della libertà per antonomasia,è accaduto che quella libertà sia stata soppressa.

La presidenza di Windrip inizia,infatti,nel modo più autoritario possibile.Riorganizza il governo in senso dittatoriale,limita i diritti di donne e delle minoranze, mette in carcere i suoi nemici, spaventa tutti i cittadini con misure sempre più repressive.Ridisegna completamente l’assetto politico degli Stati Uniti modificando radicalmente il governo degli USA,esautorando il Congresso ela Magistratura;reprime ferocemente ogni tipo di protesta;organizza ed arma forze paramilitari chiamate i “Minute Men”,gli MM(due consonanti che ricordano altre due consonanti,le SS)con piena libertà di picchiare,torturare, sbattere in prigione,perseguitare chiunque venga anche solo sospettato di avere idee diverse,istituendo campi di concentramento per dissidenti,imbavaglia l’informazione;scatena l’ostilità delle masse verso i migranti dal Messico,gli ebrei,i neri.

Sinclair Lewis scrive il romanzo nella metà degli anni ’30.In quegli anni, in Europa l'Italia è saldamente in mano al fascismo di Mussolini, la Germania è dominata dal pugno di ferro di Hitler.Negli stessi anni gli Stati Uniti affrontano la crisi economica del 1929,nota come "Grande Depressione".Il Presidente del romanzo di Sinclair,"Buzz" Windrip,l'affronta in maniera demagogica e populista:negli USA c'è bisogno di disciplina,volontà e di decisioni forti.Promette aiuti e sovvenzioni a tutti,e a quelli che saranno giudicati "bravi americani" ridotti in povertà dalla crisi,riceveranno denaro dal governo,mentre le donne devono stare a casa:al paese servono prolifiche mogliettine,non indipendenti lavoratrici.

In modo altrettanto magistrale,un altro grande scrittore americano, Philip Roth,scrive nel 2004 il romanzo Il complotto contro l'America (The Plot Against America),ambientandolo negli Stati Uniti nello stesso periodo storico del romanzo di Sincler Lewis.Anche qui sempre il presidente Roosevelt perde le elezioni contro Charles Lindbergh, il famoso aviatore che pare avesse realmente idee antisemite e simpatie per Hitler.Il nuovo presidente stringe un patto di ferro con Hitler e l'imperatore giapponese Hirohito e sceglie come suo ministro l’industriale Henry Ford,e anche qui si vede l'assonanza con la realtà di oggi se si pensa a un certo Elon Musk nel governo Trump.

La letteratura,dunque,in entrambi i romanzi diventa cronaca,i romanzi quasi come dei quotidiani.Sembra paradossale ma se si pensa a come il nuovo presidente americano Donald Trump si è mosso nella politica interna e quella internazionale,contro gli immigrati,umiliando l’Ucraina,favorendo l'azione criminale di Netanyahu a Gaza,l’associazione è inevitabile.

Sì,leggi il libro di Sinclair e vedi l'America di Trump.A pochi mesi dall’inizio del secondo mandato di Trump, gli Stati Uniti appaiono drammaticamente cambiati, sia in patria che sulla scena mondiale. La furia di Trump nel governo federale sta indebolendo i diritti costituzionali fondamentali sui quali sempre si è fondata la democrazia americana.L'odio da lui nutrito verso gli immigrati ha reso gli USA inospitali per i visitatori che pure concorrono ad arricchire il paese.Il suo sprezzo per le leggi ha indebolito la credibilità americana e reso gli Stati Uniti  una minaccia da temere persino dagli alleati tradizionali.Il chiaro obiettivo è quello di attribuirsi(con ricorso a strumenti per inesistenti emergenze)poteri straordinari,superando i normali meccanismi di controllo previsti da ogni normale democrazia.Il suo intento è quello di far crescere la sensazione che il Paese sia sotto attacco di Paesi stranieri e nemici interni.Ma usare le presunte "emergenze" facendo ricorso all'uso della forza attraverso FBI,DEA,Guardia Nazionale e Marines crea un vero e prorio stato di polizia dove gli agenti possono effettuare arresti a tappeto e  senza mandato e di detenere persone senza un giusto processo;creare campi di detenzione,incluso il famigerato centro di Guantanamo.Proprio come i "Minute Men" del libro di Lewis.

E' emblematico,ad esempio,quanto accaduto a Los Angeles,dove,contro le proteste di piazza di migliaia di cittadini per i rastrellamenti di immigrati in stile Gestapo,Trump ha fatto intervenire Guardia Nazionale e Marines.Trump vuole creare nella gente un senso di paura esistenziale cn la falsa narrazione di criminali che stanno prendendo il sopravvento per giustificare l'uso della forza repressiva dello Stato, abituando gli americani a vedere le forze armate nelle strade delle città.

E' per questo,allora,che il romanzo di Sinclair Lewis è quanto mai attuale,rivelatore di una profezia incredibilmente accurata del nostro tempo,caratterizzata dalla crisi della democrazia liberale statunitense e da scenari di autoritarismo.E' attuale lo è perchè le questioni sollevate su giustizia e libertà rimangono perenni.Lewis riteneva che il dissenso non è slealtà verso la propria Nazione,ma il cuore della democrazia americana,alimentata da uno spirito libero,indagatore,critico.Lewis riesce a far aprire gli occhi sul pericolo costante rappresentato dal tramonto della democrazia statunitense e anche delle nostre democrazie europee:non un fatto del passato, ma un rischio quanto mai attuale.

Oggi, con partiti,sindacati, gruppi sociali,ONG e altre organizzazioni fortemente indebolite,e con due disastrose crisi economico-finanziaria,come quella del 2008 e quella  post-Covid,la crisi delle democrazie liberali si è ancor più accentuata.Si sta così aprendo la strada a leader e movimenti – come Trump e il suo movimento Maga – portatori delle forme più radicali di populismo autoritario che mirano ad abbattere le norme del sistema democratico liberale.Le istituzioni da sole non bastano a frenare degli autocrati cinici e brutali se la democrazia viene ridotta al culto e al dominio della maggioranza e del governo (e il pensiero non può non andare alle parole di Alexis de Tocqueville sulla "dittatura della maggioranza")senza che vi sia un rispetto dei diritti e del ruolo delle minoranze.

La democrazia liberale funziona se i cittadini adottano una cultura di rispetto dei diritti degli altri di pensare ciò che vogliono. Soprattutto, se tutti i soggetti politici di maggioranza e di minoranza rispettano le regole e i princìpi di base del gioco democratico, il sistema di pesi e contrappesi (dalla divisione dei poteri ai meccanismi di "checks and balances"), lo stato di diritto, un’articolazione plurale dell’esercizio dell’autorità politica per la maggior parte del tempo, senza cercare di portare le istituzioni indipendenti(Tribunali,Forze Armate,media,scuola e università,le organizzazioni della società civile) sotto il loro diretto controllo e senza avere la pretesa di incarnare da soli la volontà del popolo. Le costituzioni democratiche sono difese da norme,ma anche da istituzioni funzionanti, partiti politici e cittadini organizzati.Di questo c'è bisogno se non vogliamo la fine della democrazia liberale,se non vogliamo che la distopia diventi realtà.

14 luglio 2025

ALEX, L'UOMO DEL CONFINE







Per scrivere il post sul genicidio di Srebrenica,ho raccolto un pò di documentazione e letto qualche giornale e siti web.Tante sono le storie che ho letto,tanti i drammi personali e collettivi che mi hanno coinvolto profondamente.E tanti sono stati anche i personaggi e le figure che ho "incontrato" dentro quel dramma.Ma una su tutte è quella che si eleva per la sua grandezza civile,politica ed umana,ed è quella di Alexander Langer. 

La memoria e il dramma di Langer è strettamente connessa alla memoria e al dramma di Srebrenica.Proprio 30 anni fa,infatti,una settimana prima del genocidio di Srebrenica,Alex Langer decise di togliersi la vita e abbandonare "questo" mondo.
Nato a Vipiteno,crebbe in una famiglia laica e liberale molto colta,che anni prima aveva sofferto le persecuzioni nazifasciste.Suo padre,medico ebreo,era sopravvissuto grazie all’aiuto di alcuni italiani.La madre,farmacista altoatesina cattolica,era stata tra i protagonisti della battaglia contro le “opzioni”,cioè l'obbligo imposto dal fascismo ai sudtirolesi:l’esodo in Germania o l’italianizzazione.La loro azione,anche nell'educazione del figlio,fu improntata al dialogo interetnico tra italiani e tedeschi altoatesini.Quel vissuto familiare incise profondamente sulla formazione culturale e civile del giovane Alex.

Il dramma bosniaco è intimamente intrecciato con l’impegno, civile, umano e politico del “saltatore di muri” e costruttore di ponti,così come egli stesso si definiva.
Langer si impegnò a fondo e con tutto il proprio essere per fermare la corsa che stava portando verso il baratro la ex-Jugoslavia.Non perdeva occasione, seppure nel suo stile mite e pacato,con quel suo viso bambino,di esprimere forti critiche nei confronti di chi, anche all’interno del movimento ecologista(Langer fu parlamentare europeo dei Verdi)appoggiava le rivendicazioni secessioniste delle repubbliche federate.Perchè nella sua visione lungimirante era consapevole che la deriva etno-nazionalista avrebbe potuto provocare conseguenze devastanti.Del resto quello che stava accadendo nei Balcani,con le molteplici guerre dell'ex Jugoslavia tra Croazia,Serbia,Bosnia,Kosovo e Macedonia,lui lo stava vivendo dentro di sè nella sua terra d’origine.Il dialogo interetnico e interculturale,come gli avevano insegnato i genitori,era una professione di fede ed era proprio per questo che quello che gli interessava era saltare muri e costruire ponti per ristabilire canali di comunicazione fra i pezzi di una società civile sconvolta e travolta da un torrente in piena di odio atavico e irrazionale.

L’Europa muore o rinasce a Sarajevo” era la lettera che,su iniziativa di Langer,sottoscrisse un nutrito gruppo di europarlamentari,rivolgendosi ai leader europei riuniti a Cannes in Francia,alla fine di giugno del 1995. “Basta con la neutralità tra aggrediti ed aggressori, apriamo le porte dell’Unione europea alla Bosnia,bisogna arrivare ad un punto di svolta!”.
La capitale bosniaca era sotto assedio dall’aprile del 1992 con i paramilitari serbi di Ratko Mladic che martellavano incessantemente con cannoni e mitraglie la popolazione civile. Rompendo ogni indugio Langer si pronunciò per un forte intervento di polizia internazionale possibilmente sotto l’egida dell'ONU già impegnate sul campo ma inefficaci per le limitate regole di ingaggio.Perchè poi è questo il vero pacifismo,senza false ipocrisie.E invece i pacifisti,sia italiani che europei,si spaccarono,e la stampa italiana d’area attaccò pesantemente Alex mettendolo sul banco degli imputati per le sue posizioni.L’Europa era ripiombata nell’incubo della guerra eppure assisteva passiva, incapace(come sempre,come anche oggi si sta vedendo con l'Ucraina)di produrre un’iniziativa credibile che ponesse fine al macello. Langer, tuttavia,non si diede mai per vinto tentando disperatamente di individuare spiragli di pace.
Proprio per diffondere quel suo "Manifesto" sulla Rinascita dell'Europa a Sarajevo,Alex Langer iniziò un tour europeo toccando le grandi città del vecchio continente per illustrare il suo modello di società interetnica,antitetico ai proclami feroci dei leader nazionalisti, impersonati dal pattume umano di Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic.
Langer,in quel suo giro europeo,andò spiegando il senso di quel suo "abbattere i muri" e "costruire ponti",parlando,in particolare della Bosnia che era un Paese "diverso",ancora capace di scavalcare le barriere etniche,identitarie e nazionaliste,dove ancora si svolgeva una vita collaborativa e di rispetto tra le varie etnie ex jugoslave.
A considerare oggi quegli sforzi di Langer si deve tristemente rilevare che le gabbie etniche contro le quali Alex si era battuto,diventarono le fondamenta sulle quali fu edificata la Bosnia-Erzegovina attuale con gli accordi di Dayton del 1995,che se sancirono la fine del conflitto,crearono,però una pace "fredda",vuota,senza prospettive di normalità,di dialogo e progresso civile e sociale,cristallizando le fratture etniche senza riuscire a sanarle.Proprio l'opposto di quello per cui Alex si era speso per una vita intera.
Ma la memoria di Alexander Langer rimane viva e presente.Perchè Alex Langer fu "l'uomo del confine".Passava da una parte all’altra,ma non come fanno gli opportunisti,ma perché bisogna essere “mediatori,costruttori di ponti,saltatori di muri,esploratori di frontiera”.Perché c'è bisogno di “traditori della compattezza etnica”,la quale antepone l’io e il gruppo, alla comune natura umana. Traditori “ma non transfughi”.

Anche il suo congedo dalla vita ha un significato:come tutti i profeti ha sentito la fatica del fare ancora nonostante tutto e del sentirsi in colpa per non esserci riuscito,pur consapevole di quanto sia difficile essere,come lui voleva essere,uomo “senza frontiere”.Abitare la frontiera, il confine non è un’azione facile. Solitamente concepiamo il confine come una linea che tiene distinti e separati territori, lingue, culture, identità. Ma è proprio lì,sul confine che Langer ci ha fatto intravedere che lingue culture e identità si incontrano e si incrociano. Si può decidere di abitare dalla parte del “noi” oppure di vivere con gli “altri”, non accanto ma insieme, stare su una delle due sponde oppure costruire ponti, come Langer ha insegnato e,come lui diceva:"Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni, e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone”.

Tra le sue intuizioni più geniali ci fu il rovesciamento del mito olimpionico dell’atleta citius, altius, fortius (“più veloce, più in alto, più forte”)elevato poi a modello culturale di riferimento in un’epoca che già lasciava intravedere i nefasti effetti che sarebbero stati prodotti,non molti anni dopo,dall’avvento,nell'economia come nell'umano,da una globalizzazione e competizione esasperata e feroce che generava crescita delle disuguaglianze e idolatria del guadagno a danno dell'individuo(poco più di 10 anni dopo ci sarebbe stato il dramma economico e umano di  Lehman Brothers).In contrapposizione a questa logica Alex Langer parlò invece di "lentius,profundius, soavius (“più lento, più profondo,più lieve”),nel senso di ridurre la frenesia dei modelli della vita moderna,prendendosi il giusto tempo per apprezzare il momento,di cercare significati più profondi dell'esistere,coltivando introspezione e relazioni con l'altro,e agire con gentilezza e compassione verso se stessi e gli altri evitando le aggressioni e la competizione sfrenata.Secondo Langer,cioè,occorreva riscoprire e praticare i limiti: rallentare,abbassare,attenuare i ritmi economici e di consumi per dare spazio all'ascolto pacato delle ragioni dell'altro,allo studio e alla riflessione.
Quella mattina del 3 luglio 1995,quando lui decise di lasciare questa vita,fu ritrovata nella sua auto quasi come un’esortazione a chi restava,uno struggente invito a portare avanti anche in suo nome le battaglie sotto il cui peso lui era alla fine rimasto schiacciato:"Non siate tristi. Continuate in ciò che era giusto”.Poche parole che rappresentavano quasi il testamento politico di un uomo che aveva consumato la propria vita, senza mai risparmiarsi,per i suoi ideali di pace e di convivenza tra i popoli, per l’utopia di un mondo migliore.

11 luglio 2025

A SREBRENICA DOVE ERAVATE ?




Rimarrà scolpito per sempre nella mente e nella coscienza dell'umanità il nome di un luogo e di una data.Srebrenica è il nome di quel luogo,una cittadina della Bosnia vicino al fiume Drina,al confine con lo Stato della Serbia.E l'11 luglio 1995 è quella data.Quella cittadina della Bosnia orientale era un'enclave dentro la Serbia,abitata da bosniaci di fede musulmana.In quelle zone impersarva già da 3 anni,dal 1992,la guerra tra Serbia e Bosnia,nell'ambito delle numerose Guerre balcaniche scoppiate dopo il crollo dell'ex Jugoslavia e la morte del Maresciallo Tito.In quella specifica guerra la Serbia voleva annettere la Bosnia-Erzegovina,mentre la Bosnia combatteva per la sua indipendenza.E fu in quel luogo e in quella data che 30 anni fa si consumarono indicibili orrori e mostruosuità.Orrore di cui provare vergogna:quella vergogna che ancora oggi la comunità internazionale dovrebbe provare per aver consentito che quelle mostrosuità avvenissero.


La guerra,tutte le guerre,sono crudeli,terribili,devastanti,atroci.Ma quello che successe a Srebrenica non fu una guerra,ma un genocidio,una pulizia etnica,uno sterminio di massa di civili bosniaci-musulmani,sterminati proprio perchè bosniaci,proprio perchè musulmani.L'11 luglio e quelli seguenti furono giorni di violenza inaudita.Furono giorni di massacri,violenze,stupri e brutalità di ogni tipo contro,uomini,donne, anziani, bambini, tutti bosniaco-musulmani.20mila persone cercarono anche di fuggire dalla città,ma quasi la metà di esse,almeno 8.372,secondo un calcolo per difetto,vennero trucidate dopo essere state inseguite e catturate nei boschi mentre cercavano di raggiungere la cittadina di Tuzla dove c'erano i soldati bosniaci.Tutti quei corpi violati e massacrati furono poi buttati in fosse comune scavate per eliminare tracce e testimonianze.Quel numero,8.372,compare su una lapide all'ingresso del Cimitero del Memoriale di Potočari,con il nome dei paesi nei quali il massacro fu compiuto(foto sopra). Dal profondo di quelle fosse comuni e dalle centinaia di altri posti dove quei corpi furono buttati,ancora oggi sembra sorgere la domanda:"Dove eravate?”.E' la domanda che si potrebbe rivolgere alla comunità internazionale,e in modo particolare all’Europa e alle Nazioni Unite, quando nel luglio 1995 (dall’11 al 22), a Srebrenica, le truppe serbo-bosniache guidate dal generale Ratko Mladić,sterminarono quel migliaio di civili bosniaci.Sì,a tutta la comunità internazionale andrebbe posta quella domanda.Perchè quella piccola città,enclave bosniaca circondata da territori serbi,costituiva una “zona protetta”,dichiarata tale da una Risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu.Ed era per questo che Srebrenica e le zone intorno erano controllate dalla Forza di protezione ONU,ed in particolare dai caschi blu olandesi ed i bosniaci musulmani si sentivano abbastanza tranquilli,perchè si sentivano protetti dalla comunità internazionale e dall'ONU.Ed invece furono proprio i caschi blu olandesi che non fecero nulla per prevenire lo sterminio.Anzi.in alcuni casi furono loro stessi a consegnare i bosniaci ai serbi ed in un caso,addirittura,fecero uscire dai loro nascondigli alla periferia di Srebrenica, 300 bosniaci che vi si erano rifugiati, consegnandoli di fatto ai loro carnefici.

Per questo motivo il Tribunale dell’Aja, nel febbraio del 2017, ha ritenuto l’Olanda “civilmente responsabile” per la morte di quegli uomini. Dieci anni prima, nel 2007, il genocidio di Srebrenica era stato riconosciuto tale dalla Corte Internazionale di Giustizia che aveva sottolineato la responsabilità della Serbia nel non averlo prevenuto e nel non aver punito i suoi autori.

30 anni dopo quel genocidio, il bilancio delle vittime non è ancora definitivo.All’appello mancano ancora tantissime persone i cui resti giacciono,privi di nome,nei centri di identificazione.Chissà,forse un giorno saranno identificate con il test del Dna e saranno sepolte nel cimitero del Memoriale di Potočari davanti al quale,come un immenso fazzoletto di pietra,si stende una lapide riportante i nomi delle vittime(foto sopra).

Srebrenica fu il primo genocidio al mondo dopo quello dei nazisti nei campi di Auschwitz,Buchenwald,Dachau e tutti gli altri nei quali si sprigionò tutta la bestiale ferocia umana.Dopo allora dall'umanità si alzò il grido:"Mai più !".Eppure dopo quel tempo altri genocidi sono stati consumati in tutto il mondo,come quello in Cambogia da parte dei khmer rossi,quello dei Tutsi e oggi a Bucha in Ucraina da parte del criminale del Cremlino.E tutto questo nel silenzio e nell'immobilismo del mondo ieri a Srebrenica,oggi in tante altre parti del mondo.

E' questa la crisi dell'umanità dei tempi nostri,la vergogna delle nostre coscienze.E' una crisi dovuta anche ad un complice silenzio dei media misto alle grancasse della propaganda.Una comunità internazionale incapace di difendere, allora come oggi, i più deboli, i più piccoli, i più vulnerabili.Incapace di assumere decisioni nemmeno per garantire un corridoio umanitario necessario per salvare migliaia di vite umane allo stremo e in balia di una violenza inaudita. Come a Gaza,come in Ucraina.La domanda “Dove eravate?” oggi continua a rimanere inevasa. Fino al prossimo massacro. Fino al prossimo genocidio.

Sui fatti di Srebrenica vorrei segnalare il bel film:"I Diari di mio padre" del regista bosniaco Ado Hasanovic,nel quale egli racconta il dolore collettivo e familiare di quel luogo e di quei giorni(il trailer sopra).

05 luglio 2025

BUON COMPLEANNO RAGIONER FANTOZZI





50 anni fa arrivava nei cinema italiani Fantozzi, un film che avrebbe poi iniziato un’epopea cinematografica capace di imprimersi nella memoria collettiva come il simbolo perfetto della tragicommedia dell’uomo comune."Fantozzi" inizialmente nacque sulle pagine dell’Europeo,dove Paolo Villaggio scriveva racconti ispirati alle sfortunate esperienze lavorative del suo personaggio.Quei racconti furono raccolti in un libro,:"Fantozzi" che ebbe un successo clamoroso.Da lì poi la trasposizione cinematografica, diretta da Luciano Salce.

Non credo sia eccessivo dire che Fantozzi è un capolavoro del cinema italiano,un’opera nata in un periodo storico e cinematografico di grande fermento culturale.Nel nostro Paese era anche il tempo degli anni anni di piombo,tra attentati terroristici,proteste studentesche e operaie,inflazione e recessione economica;in questo contesto di tensione e incertezza, la figura del ragioniere sfortunato riusciva a divertire e scaricare quella tensione,diventando un’icona senza tempo.

Quella tragicommedia,quel Fantozzi ha fatto ridere tanto ma ha anche fatto riflettere,per quella ingenua velleità dell’uomo medio di provare a ribellarsi a regole e imposizioni(indimenticabile la mitica scena della "Corazzata Potemkin").Lo stesso Paolo Villaggio definì Fantozzi come “il personaggio più tragico della letteratura italiana”.Il ragioniere Ugo Fantozzi,pur amatissimo dal pubblico,era solo un uomo qualunque e per lo più deriso:un perfetto antieroe.Perchè Fantozzi è il simbolo di tutti coloro che umili,sempliciotti,di poca cultura,sono vittima di un sistema dispotico,irriconoscente,ipocritamente disponibile verso i sottomessi ma in realtà elitario e prepotente verso quelli non ritenuti “idonei” e perciò  destinati all'invisibilità.Quell'invisibilità che risalta dalla prima scena:la signora Pina, moglie del ragioniere, chiama il centralino della Megaditta per avere notizie del marito che non vede da più di 2 settimane.E come sa chi quel film conosce,Fantozzi appare più tardi uscendo da uno squarcio sul muro dopo aver trascorso ben 18 giorni dimenticato,murato nei gabinetti della società,durante lavori di ristrutturazione,senza che nessuno s'accorgesse di quella sua prolungata assenza.Un incipit esilarante,e al contempo,spaventoso e drammatico.L'invisibilità dell'uomo nella società dell'indifferenza.

Fantozzi è una maschera della grande commedia italiana,dove una minuscola situazione esistenziale diventa tema universale. Basta guardarsi intorno (o anche allo specchio) per riconoscere che del ragionier Fantozzi, e di quello che egli vive,sogna,subisce nei suoi film,in fondo qualcosa appartiene un po’ a tutti noi.Nell'ambiente alienante dell’ufficio,Fantozzi,bistrattato dai colleghi,è intrappolato in una spirale di deferenza e di dedizione incondizionata alla Ditta e ai suoi capi. E la vita domestica non gli offre alcuna consolazione.Ogni mattina la sua vita si ripete drammaticamente uguale:il risveglio, la corsa affannosa contro il tempo,il tram preso al volo per timbrare il cartellino in tempo utile per prostrarsi al Direttore Megagalattico.

Dietro quella maschera(tragica)c'era quel linguaggio particolare che raccontava le storture della vita impiegatizia:l’uso scorretto del congiuntivo,le storpiature come "batti", "dichi",“venghi”, e ancora l’uso volutamente errato del nome di Fantozzi, che ora diventa Pupazzi o Fantocci. E ancora le frasi divenute iconiche come “estasi mistica”,“nuvola dell’impiegato”,“salivazione azzerata”,la mitologica "Poltrona in pelle umana” del megadirettore galattico.E poi le scene indimenticabili:la partita di calcio,la cena nella villa del Capo Supremo,l’autobus preso al volo in attuazione del "Piano B".Con tutto quell'insieme di personaggi,come la signorina Silvani,il ragionier Filini, Calboni che lo deridono ma approfittano di quella sua dedizione al lavoro.

Ma se quello è l'atteggiamento che gli riservano gli "altri",è lo stesso Fantozzi a non illudersi.Egli sa di essere un individuo perfettamente inutile,un uomo senza qualità,a dirla con Musil.E così si rifugia nel servilismo più ostinato,a farsi disperatamente suddito,come se in quella condizione potesse evitare ulteriori colpi inferti alla sua vita miserabile.Accetta perciò con inettitudine di fare anche il lavoro degli altri,sapendo che il sistema nevrotizzato in cui abita lo porterà sempre alla disperazione:non c'è tregua al suo goffo incespicare.

Eppure in quello sguardo tragicomico di Fantozzi c'era anche un qualche cosa di politico,nel quale lotta di classe e frustrazione si intrecciavano amaramente.Fantozzi è espressione della cultura medio borghese e nell'impossibilità di farlo in ufficio,tenta di ricalcare la fisionomia del padre padrone tra le pareti domestiche, orientando a suo modo il clima familiare attraverso il possesso degli spazi e dei piccoli oggetti di consumo quotidiano,come il telecomando del televisore.Quell'uomo buono al lavoro,in casa si trasforma nella belva,nell’uomo del comando,il detentore esclusivo delle poche certezze che ha.

Alla fine il tentativo di vivere quel sogno borghese per Fantozzi è appunto solo un sogno,che lo porta alla frustrazione e al ridicolo.E anche nello spazio piccolo e contenuto della rivendicazione, della lotta,della presa di coscienza fantozziana degli abusi subiti,ogni ingranaggio della macchina sociale è pensato per soffocarne il dissenso prima ancora che possa prendere forma.E quei suoi tentativi di rivolta e di ribellione sono solo l'ennesimo tragico,drammatico,ma in realtà patetico tentativo di sopravvivere in un mondo che non lo contempla se non come bersaglio, sociale, umano, fisico.Comunque sia buon compleanno ragioner Fantozzi e grazie per averci divertito(e fatto pensare).

24 giugno 2025

RISVEGLIARE LA RAGIONE




Ed alla fine è successo quello che molti avevano temuto ma che in fondo non si credeva potesse mai avvenire.Alla fine gli Stati Uniti di Donald Trump hanno bombardato i siti nucleari iraniani in sostegno di Israele,la cui cancellazione dalla faccia della terra è stato da sempre l'obiettivo dichiarato degli ayatollah iraniani.

Difronte a questo scenario  l’Europa e il mondo intero sembrano essere stati colti di sorpresa,come sonnambuli risvegliati da un sonno profondo,ritrovandosi difronte a scenari di guerra con l'angoscia di essere sull’orlo di un abisso.Sembra essere tornati all'inizio del secolo scorso quando i popoli del primo Novecento si ritrovarono precipitati nella Grande Guerra quasi senza accorgersene,come sonnambuli che si aggiravano nella notte sempre più buia del Mondo.Eppure in quell'epoca il Vecchio Continente dell’Impero austro-ungarico in particolare, viveva in una condizione di benessere così come ce lo descrive nei suoi libri il grande scrittore austriaco Stefan Zweig.La "Felix Austria" colta e liberale di fine Ottocento e del primo Novecento costituiva il suo nutrimento culturale:"Era dolce vivere in quell'atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino -scrive Zweig -senza averne coscienza veniva educato a essere supernazionale e cosmopolita".Insomma,non c’era un motivo per spingere quel mondo verso l’autodistruzione.
Eppure l'inimmaginabile avvenne.Avvenne con l'attentato di Sarajevo nel quale lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccise con un colpo di pistola l’erede al trono dell'Impero Austro-ungarico Francesco Ferdinando che portò alla Grande Guerra,un'immane  mattanza che cancellò la vita di 21 milioni di persone,lasciandone ferite altrettante tra militari e civili.

Quel colpo di pistola non fu opera di uno squilibrato ma il portato di tutta una'altra serie di cause che generarono il conflitto.La Prima Guerra Mondiale fu originata da motivi profondi e l'attentato di Sarajevo fu solo il fattore scatenante.L'Europa era percorsa da forti tensioni nazionalistiche, con movimenti che miravano all'indipendenza e all'autonomia nazionale.L'Impero Austro-Ungarico,in particolare,si trovò a fronteggiare le aspirazioni indipendentiste dei popoli slavi,tra cui la Serbia di Gavrilo Princip.L'attentato al successore dell'Impero divenne così la motivazione per l'Austria di regolare una volta per reprimere le aspirazioni indipendentische della Serbia.
Ma tutto precipitò perchè c'era il gioco delle alleanze militari come la Triplice Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna)e la Triplice Alleanza(Germania,Austria-Ungheria, Italia),che,con i patti di mutuo soccorso,trasformarono un conflitto regionale in una guerra su scala mondiale.Quei patti esprimevano in realtà le ambizioni imperialistiche dei singoli Stati,la Germania in particolare,che ambiva a estendere la propria influenza politica ed economica a danno di Francia e Gran Bretagna.

E così anche oggi ci risvegliamo,come nel 1914,sorpresi e impreparati difronte ai nuovi venti di guerra,perchè forse abituati a vivere,almeno fino a 2-3 anni fa,in un tempo di stabilità e relative sicurezze.Ci ritroviamo sorpresi difronte ai nuovi scenari di guerre in Ucraina,Gaza e ora Iran,non comprendendo quasi come sia potuto succedere.Eppure questo è il tempo in cui le informazioni arrivano in tempo reale.Siamo nell’era della cybersicurezza e degli spy-ware, dei satelliti occhiuti e precisi, delle tecnologie invasive, del capitalismo della sorveglianza, dei social e dell’intelligenza artificiale.
La tecnologia procede in tempi incredibilmente brevi e dunque sappiamo degli spietati Ayatollah iraniani,conosciamo le paure di Israele per la sua sopravvivenza, lo strazio di Gaza,le mostruose violenza russe in Ucraina,le ambizioni cinesi e l'agire dello psicopatico nordcoreano.
Eppure, rispetto a questi scenari, ci muoviamo ancora come i nostri bisnonni:spinti da un preistorico e rozzo senso di stupida appartenenza ad una sacra idea di patrottismo,restiamo ancora fermi in antistorici nazionalismi.In un tempo di rinascenti sovranismi si rivendica ancora l'appartenenza a minime parti del mondo globalizzato,declinando beceri linguaggi stile "America first" o "Prima gli italiani",con un riflesso paleolitico che sta smantellando ogni organizzazione sovranazionale,dalla Nato all'Onu,all'Oms,cioè,paradossalmente,proprio quegli organismi sovranazionali che nel momento dell'emergenza,come al tempo del Covid,ci hanno salvato.Del resto è la Storia a dirci che furono proprio ottusi nazionalismi a precipitarci in entrambe le Guerre mondiali che portarono a milioni di persone sterminate sui campi di battaglia e nelle camere a gas.
Siamo poi riusciti ad uscire da quelle tragedie proprio superando sovranismi e nazionalismi grazie alle idee di grandi uomini che credettero nel grande sogno di una Europa unita.

Ma la memoria di quei giorni orribili è come svanita e siamo tornati alle piccole patrie,al rifiuto di capire il dolore collettivo,all’anestesia dell’umanità.Questo rifiuto di una comprensione e condivisione del sentimento collettivo di sofferenza,permette che avvengano nuove stragi quotidiane su una popolazione massacrata mentre è in fila per il pane a Gaza o in Ucraina,fatti sui quali abbiamo perfino smesso di indignarci.

Con la spaventosa pressione dei conflitti alle nostre porte e con gli egoismi neonazionalismi dilaganti,riuscirà l'Europa a ribellarsi ai deliri di onnipotenza della Grande Russia,della Grande Cina o dell’America First?La risposta,nonostante tutto,è SI,perchè l'Europa ha una sua superiorità etica e valoriale nei confronti del gangsterismo trumputiniano,e può far valere la grandezza delle proprie tradizioni,della propria storia millenaria,della propria cultura e civiltà.Questo SI è però subordinato a un PRESTO;bisogna svegliarsi da quel sonno nel quale gli europei sembrano essere caduti.E bisogna farlo presto,perchè il tempo sta finendo;dobbiamo risvegliarci e ritornare ad essere l'Europa che eravamo e riprenderci il ruolo di guida planetaria;l'alternativa è trasformarci invece nelle vestigia di un tempo che fu,seppellita dai nuovi gangsterismi mondiali.
Tornare ad essere.Perchè l'Europa è stata sempre un modello sociale:con servizi pubblici forti, protezione sociale, meno disuguaglianze. E lo è ancora.Forse lo si dà per scontato e lo sottovalutiamo.Ma non lo è.Quella socialità si coniuga bene con il concetto di libertà che non è solo individualismo.Libertà significa infatti combattere insieme per valori comuni e proprio gli Stati Uniti sono stati a lungo visti come la terra della libertà,cosa che invece più non è mentre è l'Europa ad incarnare questi valori.

Non possiamo lasciar spazio alla rinuncia e alla rassegnazione.Il destino dell'Europa,che poi è il nostro destino,dipende da noi e bisogna prendere coscienza dei rischi,avendo la capacità di immaginare e la forza di costruire un diverso futuro per evitare l'incubo di quell'inizio del secolo scorso cominciato a Sarajevo.Possiamo anche non comprendere i tempi,ma la Storia sta lì a ricordarci ciò che è stato e che ancora potrebbe essere.Possiamo far finta di niente e continuare in questo sonno della Ragione.Salvo poi trovarci al risveglio difronte a altri drammatici eventi che ci cambieranno,volenti o nolenti,le nostre vite e le nostre piccole esistenze.

19 giugno 2025

GOBETTI, IL "RIVOLUZIONARIO" LIBERALE





Il 19 giugno 1901 nasceva a Torino Piero Gobetti.La notorietà di Gobetti è legata soprattutto alla forza di suggestione della sua idea di “rivoluzione liberale”.Può sembrare paradossale,ma egli non diede mai una definizione precisa di quel concetto,nemmeno nell'omonima rivista da lui fondata("La Rivoluzione Liberale" appunto).Gobetti,d’altra parte,non era un pensatore rigido e schematico,ma «un agitatore d’idee,lucido, intrepido, appassionato»,come di lui ebbe a dire il filosofo Norberto Bobbio.Ed infatti Gobetti esponeva le proprie tesi riferendosi ad autori anche molto distanti tra loro(Croce,Einaudi, Salvemini,Marx)perchè avvertiva l'esigenza di un coinvolgimento di ogni tradizione culturale per il rinnovamento della società del proprio tempo.

Il concetto di “rivoluzione liberale” può forse essere meglio capito guardando al contesto storico in cui maturò quell'idea.Gobetti,già nell’adolescenza,era suggestionato,come tanti studenti della sua generazione,dal mito di un rinnovamento radicale della nazione attraverso l’esperienza bellica,sentendosi spiritualmente vicino al cosiddetto “interventismo democratico” espresso dalle correnti intellettuali e politiche rappresentate dalle riviste fiorentine «La Voce» di Giuseppe Prezzolini e «L’Unità» di Gaetano Salvemini.Appena 17enne,nel 1918,fondò la sua prima rivista,«Energie nove», coinvolgendo alcuni compagni di scuola(tra cui la futura moglie,Ada Prospero).Quella rivista fu molto apprezzata dagli stessi Salvemini e Prezzolini per il tentativo di dar voce all'inquietudine di un'intera generazione spinta dalla volontà di superare la politica e la cultura dell'età giolittiana.Ma già nel 1920 Gobetti si allontanò da quell'esperienza,e nonostante la fortuna che quella rivista ebbe,decise di chiudere "Energie Nove",per un bisogno di "raccoglimento" e di "silenzio" per elaborare percorsi assolutamente nuovi,come egli scrisse nell'ultimo articolo.

Cominciò così per Gobetti un lavoro di ripensamento critico della realtà storica e politica italiana,nel quale approfondì gli studi sul Risorgimento,sulla Rivoluzione russa e sul ruolo del movimento operaio.Questo portò Gobetti a formulare un bilancio drasticamente negativo dell’azione delle classi dirigenti liberali a partire dal Risorgimento e dal processo di unificazione,sino alla drammatica crisi del dopoguerra e all’affermazione del fascismo che,con una delle sue espressioni più geniali definì «l’autobiografia della nazione»,per significare che il fascismo non era imposizione dall'alto,quanto piuttosto un fenomeno radicato nella storia e nella cultura italiana,rivelando una tendenza collettiva ad una "servitù volontaria",sedimentatasi in una nazione culturalmente arretrata,non essendo avvenuti,come altrove in Europa,quei processi di modernizzazione della società.L'avvento del fascismo aveva certificato questa condizione ma,paradossalmente,proprio la lotta al fascismo poteva offrire l'occasione per una rinnovare la nazione con nuove "élites" per mezzo delle quali rigenerare il costume etico e politico degli italiani in senso liberale.

Gobetti si convinse che la criticità della realtà italiana consistesse nell’esclusione delle classi lavoratrici dalla vita politica e istituzionale del paese,dovuta all'egoismo delle classi dirigenti che impediva i processi di modernizzazione della società.Per Gobetti il mondo moderno s'era storicamente sviluppato proprio nei conflitti economico-sociali tra le classi,con la formazione continua di nuove élite che,nel battersi per i propri interessi, concorrevano a rendere vitale l’intera società.Il ruolo del movimento operaio risultava allora assolutamente decisivo,perché rappresentava il desiderio di emancipazione delle classi lavoratrici ma anche una risorsa delle società liberali.

Per queste sue posizioni, Gobetti andò incontro a numerose polemiche. Ci fu chi lo indicò come un comunista travestito da liberale,per la sua collaborazione con il giornale torinese «Ordine nuovo» di Antonio Gramsci.E significativo fu il commento che la «Critica sociale»(la prestigiosa testata diretta da Filippo Turati) dedicò all’uscita del volume "La rivoluzione liberale":"Chi è Gobetti?E' un liberale?Un conservatore?Un comunista?O tutte e tre le cose assieme? E come si possono conciliare?Di certo è un agitatore di idee,un tenace antifascista,dietro al quale vanno molti altri  giovani".

In realtà Gobetti era e rimaneva un liberale, che dell’ideologia socialista non condivideva assolutamente nulla,né sul piano filosofico, né su quello economico e sociale.Egli rimase sempre fedele agli insegnamenti di Benedetto Croce e Luigi Einaudi.Epperò il liberalismo gli sembrava improduttivo se fosse rimasto ancorato (come ancora accadeva in Italia)a vecchi pregiudizi di classe e a concezioni ristrette e oligarchiche dello Stato.Bisognava quindi che le teorie liberali si rinnovassero profondamente, tornando a svolgere la loro originaria funzione di guida e lotta delle classi borghesi contro i privilegi feudali prima e aristocratici poi, affermando i principi di libertà e di autonomia degli individui,creando una morale pubblica basata sui valori della competizione e del merito.

Per questo era indispensabile confrontarsi con le forze organizzate del movimento operaio, senza timore di “sporcarsi le mani” e senza nulla concedere all’ideologia socialista.Ecco,dunque,cosa significava per Gobetti la formula “rivoluzione liberale”.Egli proponeva una riforma dei valori liberali classici nel mondo nuovo che stava nascendo.Il suo fu un impegno culturale e politico di rinnovamento della teoria e della prassi liberali,rivolto non solo al tradizionale mondo liberale, ma agli elementi più giovani e indipendenti di tutti i partiti, compresi quelli socialisti,comunisti e dei cattolici.Certo quel progetto,per le vicende storiche del periodo in cui la sua breve vita si sviluppò(morì a soli 26 anni,massacrato dalle feroci,molteplici aggressioni delle squadracce fasciste)non trovò pratica attuazione,ma riemerse più tardi in alcuni settori dell’antifascismo italiano, in particolare del gruppo di "Giustizia e Libertà" e poi nel "Partito d’Azione".

Il liberalismo di Gobetti non è una espressione ideologica ma una cultura politica di carattere universale,valida in ogni epoca e in ogni circostanza storica per gli individui in lotta per la propria indipendenza e libertà.Una cultura "rivoluzionaria",mirando essa a una continua trasformazione  della società moderna.E' proprio perciò che ancora oggi Gobetti è un personaggio che continua ad affascinare.In un tempo come il nostro che sembra aver liquidato le ideologie socialiste e comuniste ma non quella della "dittatura della Democrazia",come diceva Tocqueville,l’idea gobettiana di coniugare “liberalismo” e “rivoluzione” è sempre una strada per chi voglia realizzare un mondo più giusto e più libero.

12 giugno 2025

THOMAS MANN, IL PENSIERO COME LIBERTA'

Nel 2025 ricorre un doppio anniversario per il grande scrittore tedesco Thomas Mann,Premio Nobel della Letteratura nel 1929: 150 anni dalla nascita (Lubecca, 6 giugno 1875) e 70 dalla morte (Zurigo, agosto 1955).Eppure quasi nessun ricordo,nessuna manifestazione per ricordare la grandezza di pensiero di Thomas Mann,non solo per la sua straordinaria produzione  letteraria ( I Buddenbrook,La morte a Venezia,Tonio Kröger, La montagna incantata, Doctor Faustus,  Considerazioni di un impoliticoper citarne solo qualcuna)ma anche per quello che egli ha rappresentato nel dibattito culturale e politico d’Europa,e per le sue parole sul ruolo dell’intellettuale nella società.

Nonostante questo ed in un tempo in cui scrittori e pensatori sono diventati soggetti autoreferenziali ai Saloni del Libro,nei festival o sui social,Mann ritorna con forza,perchè egli,forse,fu l’ultimo vero scrittore europeo: raffinato nella scrittura, spietato nella denuncia, profondamente politico senza essere ideologico.

Nelle sue opere Thomas Mann ragionava sui principi,sui valori che guidano l'azione umana,alla ricerca di quella linea esistenziale che separa il bene dal male(si pensi al "Faust")il giusto dall'ingiusto.

In ogni suo lavoro Mann scrive mai per compiacere ma sempre con il coraggio,pur consapevole dei rischi personali che correva,di denunciare gli incubi che nel nuovo mondo si profilano con l'avvento del nazismo(Mann si oppose decisamente al nazismo,e fu perciò che dovette rifugiarsi all'estero,prima in Cecoslovacchia,poi in Francia ed infine negli USA.Le sue posizioni contro il regime tedesco sono riassunte soprattutto in un'opera,"L'odio" critica implacabile della violenza nazista.

Se queste dunque erano le sue idee egli non poteva non essere contro la semplificazione,contro il populismo, contro la vacuità delle passioni deboli e delle opinioni forti.Il suo scrivere è contro l’anestesia dello spirito,contro il sonno della Ragione.Ed è per questo che si cerca di ammutolire la sua voce nella dimenticanza.La dimenticanza di Mann è una diagnosi perfetta del nostro tempo:un’epoca che preferisce la leggerezza all’analisi,la superficialità all'approfondimento,i like al pensiero.E che ignora i nuovi grandi pericoli che ora come allora incombono sull'Europa,sulla sua cultura e sulla sua libertà.

Nei suoi scritti Mann esprime una profonda preoccupazione per il destino dell'Europa e l'ascesa del fascismo e del nazismo, lanciando "avvertimenti" e "moniti" all'Europa perchè preservi la ricchezza della propria cultura.Mann,in particolare,si concentra sulla fragilità della democrazia e la necessità di difendere la libertà contro la minaccia del totalitarismo facendo leva proprio sul patrimonio della tradizione culturale europea.Ecco perchè i suoi "Moniti all'Europa" continuano ad essere di grande attualità in un momento in cui il Vecchio Continente è difronte agli incubi portati da nuove dittature.
Mann rivolgeva quegli appelli all'Europa perchè ben consapevole di quanto accadeva in Europa.Chi legge "I Buddenbrook" o "La montagna incantata" non trova solo romanzi:trova il racconto di un mondo in disfacimento,il ricordo di com'era l’uomo occidentale difronte all'attuale suo decadimento,in una debolezza di pensiero che di lì a qualche anno avrebbe favorito l'avvento del nazismo.

Questa decadenza,questo disfacimento del mondo occidentale è ancor più evidenziato ne:"La Morte a Venezia".Il protagonista del romanzo,Gustav von Aschenbach,è l’emblema dell’intellettuale europeo:razionale,disciplinato, votato alla forma come argine al caos,o,per dirla con Nietzsche,all'apollineo contro il dionisiaco.Ma proprio lui,uomo del rispetto della forma,si perde in quella città languida e marcescente. Si perde desiderando la bellezza, nel silenzio di quella ragione a cui sempre s'era ispirato.Perchè Venezia,in Mann, è più di una città:è uno specchio che rimanda un’immagine che fa paura.È l’immagine di un’Europa incerta, molle, pavida. È il riflesso di un pensiero che ha smesso di guardare al presente.E' l’Occidente rammollito,narcotizzato,incapace di riconoscere il pericolo anche quando questo è in arrivo che nel romanzo è metaforicamente rappresentato dalla peste che devasterà Venezia.La peste è metafora potentissima:non è solo malattia fisica,ma decadimento del pensiero,collasso dell’etica.E Aschenbach è l’intellettuale di oggi.Non esce,non si lascia turbare,non rischia nulla.Si adatta.Evita l'impegno diretto.

Ciò che Mann mette in scena nei suoi capolavori è il tramonto della cultura come forza vitale.Le parole di Mann ci chiamano,collettivamente e individualmente,alla responsabilità: essere degni della nostra coscienza,non assopirci nel sonno della Ragione,pur quando ogni speranza sembra mancare.Ecco perché Mann viene rimosso:perché è "pericoloso".Non intrattiene,non rincuora ma costringe a pensare.

Anche la cultura e gli intellettuali hanno il dovere di agire:la cultura deve parlare alla storia,deve prendere posizione, deve rischiare. Esule dal nazismo, profeta lucido della crisi europea, la sua voce risuona nell'opera "Diari" con una forza che oggi suona profetica.L’intellettuale,per Mann,deve essere coscienza del suo tempo,proprio perchè la coscienza collettiva langue,è anestetizzata da una cultura che fa del consenso l’unica parametro di riferimento.

Quando però qualcuno torna a leggere Mann sente qualcosa dentro.Non è nostalgia:è resistenza,voglia di reagire.Nel leggere Mann la mente si allarga,la consapevolezza cresce,la coscienza si rafforza. Ci scopriamo meno disposti a credere alle bugie,a quelle che una politica e una cultura servile ci raccontano e a quelle che raccontiamo a noi stessi.

In un tempo che fa di una comunicazione distorta il proprio vanto e dell’ignoranza una virtù, Mann ci ricorda che il pensare è un atto di coraggio. E che leggere è forse l’unica forma di libertà rimasta.