12 giugno 2025

THOMAS MANN, IL PENSIERO COME LIBERTA'

Nel 2025 ricorre un doppio anniversario per il grande scrittore tedesco Thomas Mann,Premio Nobel della Letteratura nel 1929: 150 anni dalla nascita (Lubecca, 6 giugno 1875) e 70 dalla morte (Zurigo, agosto 1955).Eppure quasi nessun ricordo,nessuna manifestazione per ricordare la grandezza di pensiero di Thomas Mann,non solo per la sua straordinaria produzione  letteraria ( I Buddenbrook,La morte a Venezia,Tonio Kröger, La montagna incantata, Doctor Faustus,  Considerazioni di un impoliticoper citarne solo qualcuna)ma anche per quello che egli ha rappresentato nel dibattito culturale e politico d’Europa,e per le sue parole sul ruolo dell’intellettuale nella società.

Nonostante questo ed in un tempo in cui scrittori e pensatori sono diventati soggetti autoreferenziali ai Saloni del Libro,nei festival o sui social,Mann ritorna con forza,perchè egli,forse,fu l’ultimo vero scrittore europeo: raffinato nella scrittura, spietato nella denuncia, profondamente politico senza essere ideologico.

Nelle sue opere Thomas Mann ragionava sui principi,sui valori che guidano l'azione umana,alla ricerca di quella linea esistenziale che separa il bene dal male(si pensi al "Faust")il giusto dall'ingiusto.

In ogni suo lavoro Mann scrive mai per compiacere ma sempre con il coraggio,pur consapevole dei rischi personali che correva,di denunciare gli incubi che nel nuovo mondo si profilano con l'avvento del nazismo(Mann si oppose decisamente al nazismo,e fu perciò che dovette rifugiarsi all'estero,prima in Cecoslovacchia,poi in Francia ed infine negli USA.Le sue posizioni contro il regime tedesco sono riassunte soprattutto in un'opera,"L'odio" critica implacabile della violenza nazista.

Se queste dunque erano le sue idee egli non poteva non essere contro la semplificazione,contro il populismo, contro la vacuità delle passioni deboli e delle opinioni forti.Il suo scrivere è contro l’anestesia dello spirito,contro il sonno della Ragione.Ed è per questo che si cerca di ammutolire la sua voce nella dimenticanza.La dimenticanza di Mann è una diagnosi perfetta del nostro tempo:un’epoca che preferisce la leggerezza all’analisi,la superficialità all'approfondimento,i like al pensiero.E che ignora i nuovi grandi pericoli che ora come allora incombono sull'Europa,sulla sua cultura e sulla sua libertà.

Nei suoi scritti Mann esprime una profonda preoccupazione per il destino dell'Europa e l'ascesa del fascismo e del nazismo, lanciando "avvertimenti" e "moniti" all'Europa perchè preservi la ricchezza della propria cultura.Mann,in particolare,si concentra sulla fragilità della democrazia e la necessità di difendere la libertà contro la minaccia del totalitarismo facendo leva proprio sul patrimonio della tradizione culturale europea.Ecco perchè i suoi "Moniti all'Europa" continuano ad essere di grande attualità in un momento in cui il Vecchio Continente è difronte agli incubi portati da nuove dittature.
Mann rivolgeva quegli appelli all'Europa perchè ben consapevole di quanto accadeva in Europa.Chi legge "I Buddenbrook" o "La montagna incantata" non trova solo romanzi:trova il racconto di un mondo in disfacimento,il ricordo di com'era l’uomo occidentale difronte all'attuale suo decadimento,in una debolezza di pensiero che di lì a qualche anno avrebbe favorito l'avvento del nazismo.

Questa decadenza,questo disfacimento del mondo occidentale è ancor più evidenziato ne:"La Morte a Venezia".Il protagonista del romanzo,Gustav von Aschenbach,è l’emblema dell’intellettuale europeo:razionale,disciplinato, votato alla forma come argine al caos,o,per dirla con Nietzsche,all'apollineo contro il dionisiaco.Ma proprio lui,uomo del rispetto della forma,si perde in quella città languida e marcescente. Si perde desiderando la bellezza, nel silenzio di quella ragione a cui sempre s'era ispirato.Perchè Venezia,in Mann, è più di una città:è uno specchio che rimanda un’immagine che fa paura.È l’immagine di un’Europa incerta, molle, pavida. È il riflesso di un pensiero che ha smesso di guardare al presente.E' l’Occidente rammollito,narcotizzato,incapace di riconoscere il pericolo anche quando questo è in arrivo che nel romanzo è metaforicamente rappresentato dalla peste che devasterà Venezia.La peste è metafora potentissima:non è solo malattia fisica,ma decadimento del pensiero,collasso dell’etica.E Aschenbach è l’intellettuale di oggi.Non esce,non si lascia turbare,non rischia nulla.Si adatta.Evita l'impegno diretto.

Ciò che Mann mette in scena nei suoi capolavori è il tramonto della cultura come forza vitale.Le parole di Mann ci chiamano,collettivamente e individualmente,alla responsabilità: essere degni della nostra coscienza,non assopirci nel sonno della Ragione,pur quando ogni speranza sembra mancare.Ecco perché Mann viene rimosso:perché è "pericoloso".Non intrattiene,non rincuora ma costringe a pensare.

Anche la cultura e gli intellettuali hanno il dovere di agire:la cultura deve parlare alla storia,deve prendere posizione, deve rischiare. Esule dal nazismo, profeta lucido della crisi europea, la sua voce risuona nell'opera "Diari" con una forza che oggi suona profetica.L’intellettuale,per Mann,deve essere coscienza del suo tempo,proprio perchè la coscienza collettiva langue,è anestetizzata da una cultura che fa del consenso l’unica parametro di riferimento.

Quando però qualcuno torna a leggere Mann sente qualcosa dentro.Non è nostalgia:è resistenza,voglia di reagire.Nel leggere Mann la mente si allarga,la consapevolezza cresce,la coscienza si rafforza. Ci scopriamo meno disposti a credere alle bugie,a quelle che una politica e una cultura servile ci raccontano e a quelle che raccontiamo a noi stessi.

In un tempo che fa di una comunicazione distorta il proprio vanto e dell’ignoranza una virtù, Mann ci ricorda che il pensare è un atto di coraggio. E che leggere è forse l’unica forma di libertà rimasta.

04 giugno 2025

18 ANNI DI RAGIONEVOLI DUBBI





Era l'agosto del 2007,18 anni fa,quando l'Italia venne emotivamente colpita da quello che poi sarebbe stato conosciuto come il "caso Garlasco".Nell'antivigilia di ferragosto di quell'anno,il 13 agosto,Chiara Poggi,una ragazza di 26 anni,venne trovata uccisa in una pozza di sangue nella sua villetta di Garlasco,un paese di poco più di 8000 abitanti in provincia di Pavia.Dopo 2 assoluzioni in primo e secondo grado venne dichiarato colpevole Alberto Stasi,fidanzato di Chiara.

Oggi,dopo 18 anni,quel caso è stato riaperto dalla Procura di Pavia,in base a presunti nuovi elementi.Nell'opinione pubblica nazionale si è così creato sconcerto e disorientamento difronte alla riapertura dell'inchiesta che si riteneva chiusa con la condanna di Alberto Stasi.E per chi crede in uno stato di diritto viene da chiedersi:se il "caso Garlasco" è stato riaperto dopo così tanti anni,può essere che altri casi giudiziari del genere siano riaperti ?E se sì quanto è giusto che duri un processo ? E ancora:non si può esser sicuri nemmeno che una condanna inflitta con sentenza passata in giudicato sia giusta e certa ?

Già,perchè a ricordare tutti i "cold case" italiani,tutti i casi giudiziari degli ultimi 40-50 anni restati irrisolti o apparentemente risolti ma che ancora suscitano dubbi e perplessità sulla giustezza delle sentenze,c'è un qualcosa di più generale che sta avvenendo.Avviene cioè che in questo nuovo incerto tempo che viviamo è come se fossimo in un'atmosfera sospesa,un generale clima di azzeramento di entusiasmo e fiducia,di declino,morale e sociale nel quale è maturato un senso diffuso di sfiducia nel futuro e verso le istituzioni del Paese.E nella più generale crisi di fiducia e disistima delle istituzioni,è la giustizia a subirne i danni più rilevanti.E questo è grave per tutta la collettività,perchè in un Paese progredito la giustizia è istituzione irrinunciabile:essa garantisce l’osservanza delle regole,senza distinzione di razza,sesso, religione, appartenenza politica,e quindi uguale per tutti. Il sistema delle norme alla cui tutela la giustizia è posta,disciplina la convivenza civile: allorquando viene violato, si instaura un processo finalizzato a ristabilire l’equilibrio sul quale si incentra il rapporto tra i cittadini.Ed è perciò essenziale che questo meccanismo sia capace di dare risposte corrette:ogni errore non soltanto perpetua la violazione della regola ma crea ulteriori squilibri,suscita risentimento e diffonde sfiducia.

Certo,l’errore è parte dell’agire umano e neppure la giustizia sfugge a questa logica.Ma proprio per l'importanza del suo ruolo,quando la giustizia sbaglia si diffonde lo sconcerto: la responsabilità di chi è stato condannato con sentenza definitiva viene sovvertita. L’illecito, che si riteneva essere stato risolto nella convinzione di avere punito il colpevole,torna a essere un fatto irrisolto.Ed ecco che questa incertezza produce dolore,sfiducia e rabbia:in chi credeva di vedere avuto almeno parziale sollievo con la condanna del responsabile;in chi è stato ingiustamente punito;in chi si trova ora al centro delle accuse.

È quanto è avvenuto con la riapertura del caso del delitto di Garlasco:l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quella certezza di una giustizia finalmente fatta con la condanna di Alberto Stasi.Ed ora che tutto viene rimesso in discussione è difficile immaginare quali siano i sentimenti dei genitori di Chiara,quale sia la condizione di Stasi che ha già scontato 10 anni di carcere e quale sia la sofferenza di Andrea Sempio,il nuovo indagato.Ma grande è lo sconcerto che s'ingenera anche nel cittadino e che produce sfiducia nella magistratura.

Proprio per evitare situazioni del genere,il legislatore ha introdotto una precisa norma:il giudice condanna solo se l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio"(art. 533 Codice Procedura Penale).Ed è questo il cardine di uno stato di diritto:quando le indagini non sono riuscite a fornire la prova certa della responsabilità di un individuo si deve procedere alla sua assoluzione,e quella che potrebbe sembrare la "debolezza" del sistema giudiziario ne rappresenta invece la forza; l’irrisoluzione del delitto è il prezzo che si deve pagare per evitare l’incertezza della condanna, suscettibile di produrre effetti ancor più gravi e dolorosi.E nota è la massima:"meglio un colpevole in libertà che un innocente in galera".

Il caso di Garlasco,allora,non è solo un caso di cronaca giudiziaria.Non è neppure e soltanto la conseguenza di indagini condotte con pressapochismo e superficialità e di un interrogatorio fatto a Stasi con metodi,a dir così,non proprio "garantisti".Forse è "anche" questo ma non è "solo" questo;è soprattutto un’enorme questione posta al cuore dello Stato di diritto e del tessuto della democrazia. 

Finora c'è un condannato con sentenza definitiva,Alberto Stasi, che si è sempre proclamato innocente e che due volte è stato assolto, prima di venire condannato definitivamente in Cassazione.Gli avvocati della famiglia della vittima invitano a non rinnovare oltre il comprensibile,straziante dolore della famiglia,e a fermarsi davanti a quella sentenza di condanna per omicidio volontario,pronunciata in base ai principi della Costituzione.Ma pur nel rispetto di quell'indicibile dolore è proprio quella Costituzione che impone che tutti gli imputati siano ritenuti innocenti fino a una sentenza definitiva di condanna che va pronunciata,appunto,“oltre ogni ragionevole dubbio”,e cioè quando i giudici abbiano acquisito la convinzione che la colpevolezza dell'imputato sia così solida da escludere il sia pur minimo dubbio razionale sulla sua responsabilità.Ma quella convinzione di colpevolezza proclamata così forte nel giudizio di Cassazione,così forte poi non è se oggi è la stessa magistratura competente a dubitarne tanto da riaprire l’indagine.

Ecco perchè la riapertura di questo caso mette in luce tutta una serie di questioni politiche ma anche giuridiche e di civiltà del diritto che risaltano dalle parole di uno dei giudici che svolse le indagini sul caso Garlasco e che poi assolse Stasi.Quel giudice si chiama Stefano Vitelli,il quale,commentando oggi i fatti e le decisioni di allora,dice un qualcosa che sembrerebbe scontato secondo i principi della democrazia costituzionale e cioè che senza la certezza di una colpevolezza,c'è l'obbligo di assolvere.Ed è proprio per questo,che Vitelli assolse Stasi:non perché era certo della sua innocenza,ma perchè non era sicuro della sua colpevolezza.Ed è tutta qui la base di uno Stato di diritto:per assolvere basta un dubbio, per condannare serve la certezza.

Certo,è comprensibile ed umano sentirsi dalla parte della vittima e di chi la piange.E tuttavia, la cifra di una democrazia fondata sullo Stato di diritto si misura principalmente non per come sa dare una consolazione qualsiasi alla memoria delle vittime e ai loro cari, ma per come sa garantire gli imputati, prima e dopo che siano giudicati colpevoli.E cioè non dobbiamo pensarci o sentirci dalla parte di Chiara Poggi o dei suoi cari che giustamente la piangono,ma dobbiamo pensarci imputati alla sbarra per il suo omicidio. Immaginare che potremmo essere noi,da innocenti,a trovarci condannati ingiustamente o che in quella posizione orribile potrebbe trovarsi qualcuno al quale vogliamo bene.

Nelle prossime settimane o forse addirittura nei prossimi anni sapremo quale sarà stato l'epilogo di questo caso.Nello stesso tempo capiremo l'eventuale fallimento o meno di un sistema giudiziario.Ma la cosa più importante,anche se difficile da accettare sarà sempre e solo una:nessuno può essere condannato se non viene superato ogni ragionevole dubbio.Valeva per Stasi,vale per Sempio,e per chiunque altro.Fino ad arrivare all’estrema conseguenza,per cui non potendosi dire con certezza chi abbia ucciso una ragazza nel mezzo di un giorno d'agosto,ci sarà un assassino che sarà libero,ma almeno nessun innocente finirà in galera.Anche questo è Stato di diritto.

25 maggio 2025

UN MASSACRO CONTRO L' UMANITA'






Ma fino a quando faremo ancora finta di niente?E fino a quando continueremo a raccontarci la storia che quello che Israele sta compiendo a Gaza è solo la reazione di Israele all'orribile massacro,alle violenze brutali consumate da Hamas "quel" 7 ottobre 2023 e non invece un'orrenda mattanza di un popolo ?

No,adesso non è più il tempo di tacere.Adesso è il tempo di dire che quello che sta avvenendo a Gaza è insopportabilmente troppo.Che questo non è più solo la giustificata reazione all'orrore di quel giorno d'ottobre.Adesso è un obbligo morale dire che è intollerabile quello che Israele sta facendo in quell'ammasso indistinto di macerie in cui ha ridotto la Striscia di Gaza dopo un anno e mezzo di bombardamenti continui.Adesso è troppo il disprezzo del diritto internazionale da parte di Israele e del criminale Netanyahu.Perchè ripugna ad ogni coscienza,anche a quelle che hanno sempre sostenuto Israele contro ogni forma di antisemitismo,vedere che non solo i bombardamenti continuano,con bambini massacrati,uccisi,bruciati vivi, mutilati,ma che altri bambini e donne e uomini,anziani e ammalati,stanno morendo letteralmente di fame,perchè Israele impedisce ai camion dei soccorsi umanitari di entrare in quei cumuli di macerie per portare qualche sollievo dove invece è solo distruzione,dolore e morte.

E' il tempo di indignarci contro Israele,e nessuno può dire che questo è antisemitismo.No,questo non è antisemitismo,è solo dovere di dire:"adesso basta".Perchè troppi sono i civili uccisi e i bambini morti.Come fai a rimanere indifferente,come fai a non piangere anche tu quando vedi quella madre piangere davanti ai suoi 9 bambini,morti tutti sotto i bombardamenti di Israele?

Ma se questo è il tempo dell'indignazione e della rabbia non possiamo non dire che pure è arrivato tardi questo tempo.Tardi perché a Gaza si sta consumando la crisi della nostra umanità, perché di fronte alle prove e agli argomenti giuridici che indicano le condotte criminali del governo israeliano,l’Occidente sta perdendo sé stesso,i suoi valori e la moralità che sempre ha caratterizzato le democrazie occidentali.Ce lo porteremo negli occhi,nella memoria e nelle coscienze per anni e anni,questo "ordinario" massacro quotidiano.Ce li porteremo dentro con vergogna questi nostri silenzi e quest'inagire colpevole.Questi nostri silenzi diventeranno domani il nostro più crudele e atroce atto di accusa quando riguarderemo le foto dei bambini morti avvolti in quei bianchi sudari.

Sì,i governi di tutto il mondo e tutti quelli che avrebbero potuto e dovuto parlare hanno invece taciuto difronte all'azione criminale di un governo che giustifica il massacro indiscriminato di un popolo facendo ricorso a quel giorno dell'ottobre 2023.Un governo,quello israeliano,che sta usando non solo le bombe ma anche e perfino la fame come strategia bellica che è invece sterminio di un popolo.

Contro questo massacro si poteva e si doveva agire e reagire.Si potevano sospendere,per esempio,gli accordi di associazione Ue-Israele,come alla fine l'Europa ha fatto(con il voto contrario del governo italiano).Si potevano interrompere le esportazioni di armi;si potevano negare i diritti di sorvolo agli aerei di Netanyahu,che è sotto inchiesta della Corte penale internazionale perchè dichiarato criminale per delitti contro l'umanità.Già,si poteva.E invece....Ma intanto continuano gli ordini di sgombero alla popolazione perchè Israele continua a fare altre operazioni militari e altra guerra ancora.Così più di mezzo milione di persone ancora una volta hanno dovuto spostarsi per cercare un riparo che non c’è, perché alle persone non resta più spazio dove vivere,ma solo spazio dove ammassarsi in attesa del prossimo ordine di sgombero e del prossimo bombardamento.

E non solo bombe.Per oltre 2 mesi e mezzo Israele ha impedito che qualsiasi aiuto umanitario entrasse nella Striscia di Gaza per l’assedio imposto dalle autorità israeliane.Il che significa che non c’era cibo nè acqua,né carburante per il funzionamento dei generatori di corrente per i pochi ospedali rimasti attivi,e che non sono stati fatti entrare medicine,né anestesie, né antidolorifici cosicchè i pochi medici ancora presenti devono operare sui corpi straziati senza narcosi.E aumentano i bambini malnutriti e che di fame muoiono quando non muoiono sotto le bombe.Ora,dopo 80 giorni che non entra un grammo di farina,son cominciati a entrare qualche decina di camion dentro Gaza che vengono ovviamente e disperatamente assaltati.Perchè questa si chiama fame e disperazione di un popolo già tanto massacrato.

Sì,lo sapevamo:sapevamo dei dati sulle malattie e della fame,della conta dei morti e dei feriti e abbiamo visto il recupero dei tanti morti bambini.E ancora continuiamo ad assistere alla brutalità di negare le evacuazioni d’urgenza dei malati,dei feriti e dei malati gravissimi che potrebbero essere salvati se Israele non negasse loro la possibilità di lasciare la Striscia.

Sapevamo anche che razza di criminali ci sono nel governo Netanyahu.Bastava ascoltare le dichiarazioni rilasciate dal Ministro Smotrich per il quale era praticamente giustificato e morale affamare la gente.Oppure ricordarsi delle parole e degli atteggiamenti violenti e brutali già da anni tenuti dall'altro ministro,Itamar Ben-Gvir  che ha incoraggiato questa guerra e ha chiesto la cacciata dei palestinesi da Gaza.Nei confronti di questo criminale la sociologa israeliana Eva Illouz ha detto che Ben-Gvir rappresenta "il fascismo ebraico".Si rimane esterefatti difronte  alle parole omicidiarie di questi due criminali.Eppure questi due ministri non sono stati sanzionati dall’Occidente.Sapevamo di quste parole ma niente da nessuno è stato fatto.Ed è anche perciò che quei 9 bambini sono stati uccisi.E poi chissà quant'altri morti bambini ancora dovremo contare.

Sì,arriva tardi quest'atto di indignazione contro quella che una volta era la democrazia israeliana.E ancora niente di concreto viene fatto per far finire questo sterminio di massa,quest'immane tragedia.E dobbiamo indignarci non solo contro Israele ma anche nei confronti di chi poteva e non ha fatto,ed anzi,ha sostenuto l'operato di Netanyahu,come ha fatto il Presidente americano Trump.Sì,il tempo dell'indignazione è giunto tardi.Ma prima che questa lunga notte dell'umanità non diventi ancor più buia,prima che si attui il piano dello sfollamento definitivo di due milioni di persone,prima che 20mila bambini morti diventino 30mila,dobbiamo dire anzitutto a noi stessi,proprio perchè siamo e restiamo dalla parte di Israele che sì,sapevamo tutto e che tardi ci siamo indignati e che non abbiamo preteso per tempo dai nostri governanti di agire e fermare questo massacro che è anche il massacro della nostra umanità.

20 maggio 2025

NON E' FRANCESCO


L



Ci hanno messo poco i Cardinali riuniti in Conclave ad eleggere il nuovo Papa;c'è voluto poco perchè quell'antichissima e sacrale formula fosse ripetuta ancora una volta:"Habemus Papam".
E il Papa che abbiamo adesso è il "cardinalem Prevost","qui sibi imposuit nomen:Leone decimoquartum".Ha scelto di chiamarsi Leone XIV l'ex cardinale Robert Francis Prevost, 267° Papa della Chiesa cattolica,nato a Chicago,primo Papa americano.
L'ultimo Papa con questo nome fu Vincenzo Gioacchino Pecci, nato vicino Roma che prese il nome di Leone XIII,appunto.Leone XIII scrisse molte encicliche ma soprattutto una, la «Rerum Novarum»,è ancora oggi fonte di ispirazione per la Chiesa e per il mondo.Essa segnò l’inizio della «dottrina sociale» della Chiesa,che influenzò profondamente il pensiero cattolico del XX secolo,con l'impegno forte nelle questioni sociali.Ed è stato questo il motivo della scelta del nome anche di Papa Prevost.

Alla fine dell’800 l’Europa era nel pieno della rivoluzione industriale che aveva profondamente trasformato il mondo del lavoro, creando nuove opportunità ma anche gravi ingiustizie e sfruttamento senza regole anche di donne e bambini.Questi squilibri sociali e lo sfruttamento dei lavoratori furono sempre raccontati nei suoi romanzi dello scrittore inglese Charles Dickens.Così fra il capitalismo sfrenato e il socialismo più radicale e ateo,la Chiesa non rimase spettatrice e Papa Pecci rispose alle domande della nuova società del lavoro con la «Rerum Novarum»(«Delle cose nuove»),che affrontava temi come la dignità e il valore del lavoro e la necessità di garantire condizioni dignitose ai dipendenti.Anche Leone XIV,nel cambiamento epocale che viviamo,non vuole esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducocono a condizioni indegne di lavoro e a disparità sociali,con opulenze da un lato e indigenza dall'altro.
Papa Prevost ha una grande sensibiltà verso questi temi dovuta anche alla sua esperienza missionaria in Perù,andando però anche oltre,guardando alle "cose nuove" di questo terzo millennio ed in particolare alle opportunità ma anche ai problemi posti dall'intelligenza artificiale».Problemi che vanno dalla perdita di posti di lavoro,alla manipolazione delle verità,alla violazione degli istituti costituzionali e democratici,all'etica,alla privacy e all'espropriazione delle capacità umane da parte della Macchina,come evidenziato dal filosofo Remo Bodei nel suo libro Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale .
 
Questa sensibilità Leone la espliciterà sicuramente nella vicinanza ai deboli,agli ultimi e ai migranti,maturata dalla sua lunga permanenza come missionario in Perù,Paese di cui ha ottenuto anche la cittadinanza e al quale è rimasto profondamente legato.Ed anche in Perù lo ricordano per quei suoi tanti atti di carità,solidarietà e vicinanza alle popolazioni locali.Durante la pandemia lanciò la campagna di solidarietà “Ossigeno della speranza”,mobilitando tutta la regione per gli aiuti e comprò due macchinari per l’ossigeno,salvando vite. Poi, nel 2023, durante la catastrofica alluvione del ciclone "Yaku" del Perù, si mise gli stivali di gomma e il casco,motivando i cittadini e aiutando in prima linea.Saliva cavallo oppure a piedi su per la china di sentieri di montagne impervie,spesso battuti dalla pioggia,per visitare le popolazioni locali in villaggi remoti,riposandosi di notte sui pagliericci offerti dai contadini.
Sui migranti,lui,discendente di migranti,ha già mostrato con forza le sue posizioni.Già da cardinale,infatti,negli scorsi mesi ha più volte criticato l’amministrazione Trump per le sue politiche sull'immigrazione ed in ispecie il vicepresidente JD Vance per la sue violente posizioni sui migranti.
Legato all'attenzione per i migranti c'è l'altro tema forte sul quale già da cardinale Prevost si è impegnato e cioè quello dei cambiamenti climatici.Perchè i cambiamenti climatici colpiscono soprattutto i più vulnerabili e ne aggravano ancor più le condizioni di vita.Il cambiamento climatico sta rendendo i disastri sempre più frequenti e intensi e causano la perdita di mezzi di sussistenza,raccolticaselavoro vite umane.E sono loro,le persone meno abbienti e che vivono in contesti remoti e afflitti da guerre e discriminazioni che subiscono più gravemente gli effetti dei disastri ambientali che li costringono ad emigrazioni di massa dal Sud al Nord del mondo.

"Pace",è stata la prima parola che Leone XIV ha pronunciato quando si è affacciato dal balcone della Basilica di S. Pietro subito dopo la sa elezione.Prevost ha delineato la sua visione per l’azione della Chiesa nel mondo squassato da guerre e ingiustizie, rinnovando il proposito centrale di costruire «ponti» di dialogo.Epperò Leone ha un'idea di pace nettamente diversa da quella di Bergoglio;ad esempio,sull'aggressione russa all'Ucraina,Prevost parla di pace giusta e di Ucraina aggredita",rifiutando l'antioccidentalismo di Francesco per il quale la Nato "abbaiava alla Russia",chiedendo nel contempo all'Ucraina di "alzare bandiera bianca".

Non soltanto sul tema della pace si ha netta la sensazione che Prevost sarà tutt'altra cosa rispetto a Francesco.Timido e riservato,è uomo del dialogo,privo di spigolature caratteriali e autoritarie come quelle di Francesco che hanno creato spaccature e malumori all'interno della Chiesa.Già in alcuni atteggiamenti subito dopo l'elezione si è vista la sua diversità da Bergoglio.Quando è uscito alla Loggia delle benedizioni,vestito da Papa,era commosso.Niente buonasera,come Francesco,ma “la pace sia con voi”, e cioè “le prime parole del Cristo risorto”,con uno stile diverso rispetto a "prima".E poi nessun discorso a braccio,ma parole lette,quasi col timore di sbagliare e quell'ammonimento ai cardinali:"chi ha posti di responsabilità nella Chiesa deve sparire perché Cristo rimanga".
E poi il bisogno per l'occidente cristiano di riscoprire la liturgia,“il senso del primato di Dio”,la penitenza e il digiuno, “il pianto per i peccati propri e dell’intera umanità”.Quasi un disperato cercare la memoria per un’Europa dimentica di Dio.
Ed anche in quella sua discrezione Papa Prevost sarà diverso da Francesco:non ama i selfie e alla sfilata per il saluto dei capi del mondo non vedeva l’ora di farla finita,di scappare dal carnaio di umano di gente plaudente,dalla sequela di smartphone a immortalarlo,baciamano dei potenti del mondo ipocritamente ossequiosi.Lui abbozzava un sorriso, una stretta di mano e avanti il prossimo.No,lui non è un Papa pop:le folle lo intimidiscono e lui si commuove nel parlare,cercando di nascondere questo bellissimo sentimento che sembra debolezza ma che è "solo" grandezza.Non è,non sarà uomo da interviste scalfariane o di quelle insopportabili di Francesco a bordo di un aereo o in televisione su Inferni,cardinali da bastonare e "chi sono io per giudicare",salvo poi parlare di "frociaggine".Alla privacy, questo Papa ci tiene:"Sparire perché rimanga Cristo",appunto.
Prevost,sia per carattere che per senso dell’Istituzione, appare lontano dalla soverchiante presenza mediatica di Francesco. Perchè Francesco era il Papa che piaceva "alla gente che piace".Leone offre meno titoli ai giornali, meno “notizie”, nessun “chi sono io per giudicare”, figuriamoci frasi del tipo “se qualcuno insulta la mia mamma gli aspetta un pugno”,(l'omai famigerato giustificativo bergogliano per la strage islamista nella redazione parigina di Charlie Hebdo).I suoi sono discorsi essenziali ma densi di sentimenti e contenuti forti:“A Gaza si muore di fame”.

Per quanto riguarda i principi basilari della Chiesa Leone XIV ha già fatto capire che ci sarà una revisione rispetto a quegli atteggiamenti ondivaghi,a quelle aperture e quelle rapide retromarcia sui problemi etici fondamentali per la Chiesa.Così,ad esempio egli ha già avvertito che non potrà non «dire la verità sull’uomo e sul mondo,ricorrendo ad un linguaggio schietto,anche a costo di suscitare "qualche incomprensione".Messaggio preventivo per chi già scorge,entusiasta o preoccupato,nella destra e nella sinistra politica italiana e mondiale,un altro Papa “iper-progressista”.«Società civili armoniche e pacificate possono essere costruite solo investendo sulla famiglia,fondata sull’unione stabile tra uomo e donna». Con buona pace delle aperture di Francesco ai divorziati o alla comunità Lgbtq+ e di tutti quelli che prima di Francesco e ora di Leone vorrebbero "appropriarsi",ma solo quando a loro conviene.

10 maggio 2025

UNA GENTE SENZA NEMMENO CRISTO

 




Scritto tra il 1943 e il 1944 fu poi pubblicato nel 1945.Son trascorsi quindi 80 anni dalla prima edizione per Einaudi del romanzo-capolavoro dello scrittore torinese Carlo Levi "Cristo si è fermato ad Eboli".Carlo Levi fu persona di grande ricchezza intellettiva,derivatagli anche dalla frequentazione dei circoli culturali torinesi.Oltre che scrittore,infatti,egli fu anche pittore di notevole successo.Era laureato in medicina e nel periodo degli studi,conobbe,tramite lo zio,Claudio Treves,figura di rilievo del Partito Socialista Italiano,Piero Gobetti, che lo invitò a collaborare alla rivista La Rivoluzione liberale introducendolo poi nella scuola del suo amico e pittore Felice Casorati, intorno alla quale gravita l'avanguardia pittorica torinese,conoscendo poi anche personalità come Cesare Pavese,Antonio GramsciLuigi Einaudi.Nel 1931 si unì al movimento antifascista di "Giustizia e libertà" di Carlo Rosselli.Per la sua attività antifascista Levi venne dapprima arrestato e più tardi mandato al confino nel paese di Grassano,in provincia di Matera.E proprio a Grassano è ambientato quel famosissimo suo romanzo.

I critici hanno inquadrato il libro di Levi sotto vari generi.Per molti è un libro di memorie, autobiografico,per altri è un saggio di antropologia o di sociologia con aspetti nettamente politici, e per altri ancora è una narrazione romanzesca.Carlo Levi,era un medico,che esercitò poco la professione,avendo egli scelto l’arte, la scrittura e la pittura alla scuola di Casorati.

Ma Levi è conosciuto soprattutto per il suo libro "Cristo si è fermato ad Eboli".Il titolo è spiegato nella prima pagina. Il protagonista quando arriva per la prima volta nel paese dove è stato confinato guarda «quella mia terra senza conforto e dolcezza, dove il contadino vive, nella miseria e nella lontananza, la sua immobile civiltà».E sono proprio i contadini,consapevoli della propra condizione esistenziale,che dicono allo scrittore:«Noi non siamo cristiani,non siamo uomini,ma bestie,bestie da soma".… per noi Cristo si è fermato a Eboli"(che per loro rappresentava il luogo più vicino di civiltà e umanità).Perchè "Cristiano" nel loro linguaggio vuol dire umanità,dignità.

Quelle terre di Lucania,così aride e argillose,infestate all’epoca dalla malaria,quelle terre assolate e polverose d’estate sono luoghi abbandonati anche da Cristo.E in quelle terre le stagioni si ripetono una uguale all’altra,nei loro immutabili riti antichissimi,intrisi di magia e di credenze,che scandiscono la vita degli uomini in un rapporto con la natura invariato,in cui uomini, donne, animali e spiriti vivono in un unico mondo.Straordinarie le parole dello scrittore quando dice:"Ogni anno è identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi, nel loro indifferente corso disumano". Il domani è un futuro fuori da tempo,in un "crai"(dal latino cras,"domani")contadino, fatto di vuota pazienza, via dalla storia e dal tempo e dove(....)«nell’uguaglianza delle ore, non c’è posto né per la memoria né per la speranza».

Levi,così,"entra" in questo mondo "altro" di contadini osservandolo nelle sue lunghe passeggiate per i borghi e le case antiche,accompagnato solo da un cane.Sulla piazza   del paese viene accolto dalla comunità dei «signori» locali,nei confronti dei quali egli prova subito ripugnanza per quel loro "espropriare",quel loro sfruttamento,materiale e morale,dei contadini, che si spezzano la schiena su una terra arida e per i quali,invece,lo scrittore  finisce inevitabilmente per simpatizzare.

Lo scrittore prende una casa in paese,e per il lavoro domestico gli viene consigliata Giulia, «una strega contadina»-così viene definita dalla gente-che lo accudisce e gli insegna le pratiche magiche,una sorta di medicina tradizionale.Levi descrive Giulia come una donna con un viso di «un fortissimo carattere arcaico,di una antichità misteriosa e crudele».E sembra rileggere l’operetta morale di Leopardi "Dialogo della natura e di un islandese".

Così Levi, medico e uomo di cultura,incrocia gli insegnamenti magici con il sapere moderno, acquisendo grande popolarità tra i contadini. Viene indotto a riprendere la pratica medica, perché i medici del luogo non sanno nulla della medicina,presi solo dalla preoccupazione di estorcere denaro ai contadini. Egli pensa di poter fare qualcosa per estirpare la malaria e presenta un piano al podestà fascista che finge di sostenerlo inviandolo alla prefettura di Matera,ed invece, alla fine,gli giunge il divieto di esercitare la professione.

Ma,pur di non abbandonare i "suoi" contadini,comincia ad esercitare di nascosto, tollerato dalle autorità stabilendo con gli abitanti del paese un legame affettivo, che sarà doloroso sciogliere quando poi partirà.Alla fine del libro vi sono alcune pagine politiche, nelle quali lancia un’invettiva contro «la piccola borghesia dei paesi»,definita «una classe degenerata,fisicamente e moralmente»,che ha contagiato l’intero Paese e che è destinata a permanere anche nelle «nuove istituzioni che seguiranno il fascismo».A leggerlo oggi,sembra una visione profetica,anche se Levi sperava in «una rivoluzione contadina»,con quella sua concezione della questione meridionale che egli vedeva possibile nella coesistenza di due diverse civiltà(quella contadina e quella borghese)nella liberazione dalla miseria e nell’abolizione di ogni potere dei grandi proprietari e della piccola borghesia.

Seguace di Gobetti, del suo liberalismo illuministico e democratico, Levi risente anche della corrente del neorealismo, negli anni dell’immediato dopoguerra,quella corrente ripercorsa anche dal cinema italiano del periodo,con il bisogno di tornare a raccontare la realtà dopo la sbornia retorica del fascismo.

Lo stile nitido della scrittura di Levi sta tutto in quelle sue descrizioni del paesaggio desolato di quelle terre che influiscono così tanto sullo stato d’animo dell’autore.Quello stato d'animo è splendidamente descritta dalla magistrale interpretazione di Gianmaria Volontè che interpretò lo scrittore torinese nella trasposizione televisiva con la regia di Francesco Rosi.

Il libro si chiude con alcune riflessioni di ordine generale, antropologico, sociologico o direttamente politico.Ed è un insieme di figure allegoriche,quello che emerge dal capolavoro di Levi.L’allegoria principale che permea il libro, fa emergere gli aspetti primitivi della condizione umana, che la modernità mette fuori dalla storia. Per questo Cristo si è fermato ad Eboli: dove si ferma la ferrovia, a Eboli appunto, si ferma anche la storia.

03 maggio 2025

COSI' POPOLARE, COSI' AMBIGUO





Dopo la morte di Papa Francesco e a pochi giorni dall'apertura del Conclave per l'elezione del suo successore,inevitabile è la domanda:cosa è stato,cosa rimane del pontificato di Francesco? 

La prima cosa da dire è che il pontificato di Bergoglio è stato caratterizzato da una forte dose di populismo,un tratto tipico del resto,del cattolicesimo argentino.Bergoglio ne incarnava i tratti fondamentali con quella pulsione a sacralizzare il “popolo”.Un popolo puro per definizione,un “popolo mitico” innocente e virtuoso,messo in pericolo da una élite,dai ceti secolari pronti a traviarlo e contaminarlo.Bergoglio non ha mai avuto dubbi su chi fosse il responsabile della corruzione della purezza originale del popolo:“l’élite corrotta” è quella che discende dalle idee di Calvino e Locke e dalla Riforma protestante che condusse al razionalismo,all’illuminismo e al liberalismo.Sono l'Occidente e il liberalismo visti come il male e artefici del sistema di potere economico e  finanziario,della ricchezza,dell’individualismo,della proprietà,mentre  il bene  è rappresentato dagli ultimi,dagli oppressi e dai migranti.

Una visione certo attenta alla denuncia delle gravi diseguaglianze economico-sociali causate dal sistema economico occidentale,meno  ai diritti civili e individuali,alle lotte per le democrazie politiche con un silenzio quasi totale su altri sistemi che del pari generano  povertà, discriminazioni e fomentano conflitti.Eppure proprio le liberaldemocrazie,con tutti i loro difetti e nella crisi che stanno attraversando dovuta alla globalizzazione e al neo-autoritarismo,rimangono ancora l’unica cornice all'interno della quale sia possibile una piena attuazione delle libertà e dei diritti civili, politici e sociali e di tutela di tutte le minoranze nazionali,culturali,di genere o religiose.E non a caso è proprio verso l’Occidente che milioni di persone si dirigono,cercando una vita e un destino migliore.Ma il Papa si è unito spesso al coro critico dei valori occidentali,a quella parte di mondo che descrive l’Occidente come militarista,avido e guerrafondaio.

La geopolitica bergogliana è stata dunque antiliberale e antioccidentale.Non c’è stato un viaggio nel Sud del mondo in cui Francesco non abbia ammonito i “poveri” a non cedere alle sirene tentatrici del progresso occidentale.Perchè tali sono le radici del suo antiamericanismo,della sua attrazione per il populismo russo e dell’accomodante ricerca d’intesa con l’Islam,mentre invece il nemico per lui è sempre stato l’Occidente secolare.E proprio sull'Islam si ricordano le sue parole a proposito della strage compiuta da Al Qaeda nella redazione della rivista satirica francese "Charlie Hebdo" che aveva pubblicato vignette ironiche sull'Islam:"se uno dice una parolaccia contro la mia mamma,lo aspetta un pugno! Ma è normale! Non si può provocare. Non si può insultare la fede degli altri. Non si può prendere in giro la fede”.

Ci si è chiesto in questi giorni se Bergoglio sia stato un progressista e se il suo pontificato sia stato “rivoluzionario” oppure,al contrario,"conservatore".Ma queste,in realtà,sono etichette inadeguate.Forse qualcuno troverà “progressista” l’opposizione del popolo alle élite,del plebeo all’intellettuale.Ma certo non può definirsi "progressista" quel malcelato disprezzo per la ragione,la predica pauperista e paternalista,la resistenza all’autodeterminazione dell’individuo.

In realtà sulle grandi questioni della politica internazionale,Papa Francesco ha mantenuto posizioni molto ambigue.Ad esempio l’Ucraina. Non ha mai espresso una reale solidarietà verso chi resiste all’invasione russa. Nessuna parola chiara sulle stragi di civili a Bucha e Mariupol. Mentre accadevano atrocità indicibili,lui rilanciava la narrativa per cui era la Nato a fare pressione,ad "abbaiare" ai confini russi e piuttosto che condannare l'aggressore russo,chiedeva all'aggredita Ucraina di "di alzare bandiera bianca e di negoziare".

Sull'altro conflitto in corso a Gaza Papa Bergoglio ha giustamente denunciato le morti civili,ma non ha mai chiesto ad Hamas di arrendersi,di liberare gli ostaggi, di smettere di usare i bambini come scudi umani.Non ha mai detto una parola chiara su questo,giungendo,anzi,a chiedere di verificare se Israele non stesse compiendo un "genocidio".

Anche in altri campi e su altri temi Bergoglio ha mostrato la sua ambiguità.Nei suoi 12 anni di pontificato,egli ha saputo comunicare,anche rompendo i riti ingessati della Chiesa guadagnandosi così un favore popolare.Così,ad esempio,come quando,rispondendo alla domanda di un giornalista affermò: “Se uno è gay e cerca il Signore,chi sono io per giudicarlo? Non si devono discriminare queste persone”.Quelle parole sembravano un’apertura della Chiesa cattolica alle persone della comunità LGBTQI+.Anni dopo,però,si scatenò una  bufera mediatica per altre sue parole,per quel richiamo a tenere fuori dai seminari le persone gay,perché lì “c’è già troppa frociaggine”.Parole che asfaltavano quella precedente,presunta apertura.

Anche sulla benedizione delle coppie divorziate o conviventi Bergoglio assunse dichiarazioni ambigue.Se in una prima fase poteva sembrare che ci fosse la possibilità della benedizione alle “coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso",subentrò poi un'altra ed opposta  posizione secondo la quale:"Si tratta di evitare che si riconosca come matrimonio qualcosa che non lo è»(....)e perciò sono inammissibili riti e preghiere che possano creare confusione tra il matrimonio,quale «unione esclusiva,stabile e indissolubile tra un uomo e una donna,aperta a generare figli e ciò che lo contraddice".

Nè c'è stato un significativo cambiamento nella Chiesa su temi come l'eutanasia o l'aborto.Francesco,infatti,bollò più volte l’eutanasia come un “crimine” e contro l’aborto,arrivando a definire “sicari” i medici che lo praticano.Con buona pace della laicità di uno Stato come quello italiano che nel 1978 approvò la legge 194,per il rispetto della salute e della dignità della donna e della libertà sia della donna che del medico,che può sempre avvalersi dell’obiezione di coscienza.

E allora,al di là dei tanti luoghi comuni e degli "strattonamenti" fatti in questi giorni dalla politica e dai media,si può dire che  Francesco lascerà un’impronta meno profonda di quanto promettevano i suoi grandi propositi:troppo contraddittorio, retorico e confusionario e inconsistente.La sua popolarità non lascerà un segno di trasformazione reale della Chiesa. È destinato a spegnersi con la sua morte. O a essere inglobato dalla comunicazione di un nuovo pontefice magari altrettanto presenzialista.Bergoglio ha avuto molti primati dalla sua:il primo pontefice gesuita,il primo dall’America del sud,il primo a scegliere il nome di san Francesco.Ma non certo quello di aver riformato realmente il suo gregge.