Purtroppo era una notizia che il Brasile e il mondo intero aspettavano da giorni,e che è arrivata proprio a ridosso del Capodanno.Edson Arantes do Nascimento,"O Rey"(il Re) in arte Pelé,se ne é andato dopo un’agonia durata un mese presso il reparto oncologico dell’ospedale dove era entrato alla fine di novembre,per un tumore al colon che gli era stato asportato due anni fa.La morte di un personaggio dello spettacolo o dello sport colpisce sempre,per quella popolarità e notorietà che i palcoscenici conferiscono sempre a chi in essi agisce.Ma qui si tratta di Pelè,non di un campione qualsiasi e quindi logicamente tutto in Brasile si è fermato.I canali televisivi hanno interrotto la programmazione,molti conduttori in studio non hanno trattenuto le lacrime e sono partite tante dirette fiume dirette a raccontare la sua vita di uomo e di campione.Un lungo omaggio che ha viaggiato nei vari luoghi simboli della vita del Re,ad iniziare da Santos,la sua città e il suo club di sempre.
Quando il mondo cominciò ad accorgersi di Pelè,il calcio in tv era agli albori.Qualcosa si era cominciato a intravedere ai Mondiali svizzeri del ’54, qualcosa in più sbucò dai teleschermi in bianco e nero quattro anni più tardi,quelli che trasmettevano il Mondiale di calcio in Svezia ’58.E finì per coinvolgere tutti quanti,perché da quelle riprese d’antan,da quelle immagini sfocate e tremolanti,sbucò qualcosa di mai visto prima,di mai immaginato.Era lui,appunto.Era Edson Arantes do Nascimento,più semplicemente Pelé.E ancora gli mancavano 4 mesi a compiere diciott’anni.Certo,a quei tempi,che non erano i tempi del calcio di oggi,quelli del calcio in tv "on demand",trasmesso h24 a prezzi stratosferici,e tanto meno i tempi di internet,non era facile capire che sotto quelle fattezze di ragazzino stava germogliando il campione e il fuoriclasse.Epperò già in quei tempi dell’immediato dopoguerra c'era un qualcuno che i campioni in erba li aveva pur ammirati,segnalati e raccontati,con la sua alta professionalità giornalistica.Da Meazza a Di Stefano e Schiaffino.Era il grandissimo Gianni Brera,fuoriclasse del giornalismo,che di quel ragazzino brasiliano,di quel Pelè,così scriveva:"Ce ne vogliono molti di assi che conoscete per fare quel mostro di coordinazione,velocità, potenza,ritmo,sincronismo,scioltezza e precisione".
All'epoca Pelè era un’alternativa e una speranza,in quel formidabile Brasile degli anni '50.Era partito come riserva di Josè Altafini,a sua volta ventenne,a sua volta gran campione e che avrebbe poi deliziato gli occhi dei tifosi italiani quando venne a giocare in Italia con le maglie di Milan,Napoli e Juventus.Ma una volta entrato in campo,non ancora diciottenne,non ci furono occhi che per lui,per Pelè.Per la perfezione nella corsa,nello stacco,nel governo del pallone,nella battuta.Per un’armonia calcistica che era la cifra assoluta della sua unicità,del suo saper tradurre il calcio in arte,un arte popolare alla quale tutti potevano accedere.Già a quell’età appariva di un’altra categoria e non sfigurava accanto a due fuoriclasse come Didì e Garrincha insieme ai quali giocava nella "Selecao" brasilera.Si,perché di "O’Rey",come presto fu chiamato,non si poteva che ammirare quella stupefacente naturalezza che gli consentiva di camminare e muoversi con leggerezza su tutti i campi di calcio che calcò.A 17 anni aveva già vinto il titolo di capocannoniere del campionato brasiliano:a nemmeno 18 trascinò per l’appunto il Brasile al primo Mondiale della sua storia.Il governo lo dichiarò "patrimonio nazionale" per impedirne il trasferimento all’estero.E forse fu questo ad impedire la creazione di una gerarchia per sempre tra i tre,tra i più grandi di tutti i tempi:perché gli altri due,Di Stefano e Maradona,in Europa vennero e con il calcio europeo si misurarono.Pelè no.Il quale dovette poi saltare quasi per intero i campionati del mondo in Cile nel '62 ed in Inghilterra nel '66,per le "attenzioni" dedicate alle sue gambe da 2-3 macellai del pallone di altre nazionali che ne limitarono l'utilizzo in entrambe le competizioni.Ma Pelé tornò e rivinse il suo 3° mondiale a Mexico ’70,segnando 4 gol nella fase eliminatoria prima dell’indimenticabile testata in sospensione nella finale con l'Italia,quella finale che,dopo l'epica partita del 4 a 3 vinta contro la Germania ci aveva fatti sognare,ma in fondo soltanto illusi.Segnò di testa contro l'Italia,in quella finale del '70 in Messico.E per colpire di testa quel pallone,Pelé staccò a centroarea sul traversone volante di Rivelino e restò in aria prima di schiacciare in rete nonostante la marcatura del nostro Burnich.
L’anno dopo chiuse la sua epopea in Nazionale con 77 gol in 92 partite.Ha vinto tre Mondiali,come nessun altro nella storia del calcio.Ha segnato 1281 gol in 1363 partite,il 1000° su rigore,e poco importa quale fu il risultato finale di quella partita.Perchè tutti,i suoi compagni di squadra abbracciati a centrocampo ad aspettare che tirasse il rigore e gli spettatori sugli spalti e poi in una pacifica invasione di campo,erano in attesa di quella cifra tonda per esaltarne ancor di più la grandezza.Ma nemmeno i suoi primati,tutti questi suoi numeri stratosferici,rendono l’idea della felicità che ha regalato agli innamorati del gioco più bello del mondo.Ed é triste pensare che "o'Rey" se ne é andato qualche giorno dopo la conclusione degli ultimi campionati del mondo di calcio in Qatar.Perchè in Qatar di gioia di vivere il calcio proprio non ce n'era.Solo danaro,tanto danaro,sporco,oltretutto,di sangue e di diritti negati.