Ed in fetti si rimaneva ammirati dalla sua cultura vasta,oltre che dalla straordinaria conoscenza economica maturata nel settore bancario nel quale,ancora giovanissimo,divenne direttore centrale della Banca Commerciale Italiana,quella di Raffaele Mattioli,svolgendo poi importanti incarichi internazionali,sia nel mondo dell'economia a New York,Londra,Berlino e Parigi,sia in quello dela diplomazia svolgendo ruoli di rilievo nell’Oece(Organizzazione per la Cooperazione Economica Europea)e nella NATO.
Le sue capacità,del resto,le aveva già dimostrate nella tesi di laurea sulle ideologie politiche lodata da Benedetto Croce che la fece pubblicare da Laterza e che ne parlò sulla “Critica”.E poi venne la politica,con l'adesione al Partito Liberale,nel quale dopo soli due anni dall'ingresso,arrivò ai vertici anche qui a riprova delle sue capacità e della forza coinvolgente delle sue idee.Un partito che riorganizzò con strutturazione moderna superando la concezione di Croce,per il quale il liberalismo non poteva "rimpicciolirsi" in un partito,perchè la libertà è la premessa sana e morale di tutti i partiti e dunque il liberalismo può essere solo un "prepartito".
Nella sua veste di segretario del PLI(carica mantenuta per un ventennio)era un piacere ascoltarlo nei comizi elettorali,dopo i quali gli piaceva scendere tra la gente a stringere mani e ascoltare da vicino le voci della gente,e non si poteva non essere coinvolti da quella sua oratoria chiara,logica e stringente.La stessa logica che esprimeva nelle "Tribune Politiche" televisive,degli indimenticati Jader Jacobelli e Ugo Zatterin.Nelle risposte ai giornalisti si avvertiva con chiarezza come quella logica fosse del tutto priva di retorica,di ragionamenti ridondanti,di concetti nebulosi e incomprensibili(alla "democristiana" a farla breve).Nel suo eloquio stringente c'era tutta la sua vasta e profonda cultura umanistica e politica ed insieme la grande competenza ed esperienza in campo economico.
Erano gli anni '60.Gli anni in cui in Italia dominava un cattolicesimo politico non più degasperiano, ma incline alle suggestioni di Dossetti politicamente interpretate da Amintore Fanfani.Il leader della DC era sostenitore di un’economia pubblica allargata ed invasiva, convinto che per realizzare una società ispirata al pensiero sociale-cattolico,il potere pubblico doveva controllare l’economia mediante la programmazione dello sviluppo economico,e fu così che nacque il primo governo di centrosinistra,con l’ingresso nel Governo del Partito Socialista,anche con l'intento di staccare il PSI dal PCI.
Ovviamente non vi poteva essere nulla di più contrario alla concezione liberale dello Stato e dell’economia di mercato.Malagodi,così,alla guida di un piccolo partito com'era il PLI,ebbe il coraggio di sfidare il pachiderma della DC,ottenendo,alle elezioni politiche del 1963,uno storico 7% divenendo il quarto partito italiano dopo DC,PCI e PSI.Forte di quel risultato Malagodi iniziò un’opposizione dura e intransigente ma sempre leale e costruttiva contro la politica del centro-sinistra usando le armi della ragione,della competenza,e dell’autorevolezza e del rispetto che gli riconosceva tutto il Parlamento e gran parte dell’opinione pubblica,anche se di diverso orientamento politico.
Malagodi fu decisamente contro la nazionalizzazione delle imprese elettriche,la programmazione economica,la nuova disciplina dei patti agrari,l’introduzione delle Regioni,viste,con lungimiranza come moltiplicatrici di spesa e burocrazia.Malagodi,cioè,fu l'impersonificazione dei principi liberali contro l’invadenza dello Stato padrone nell’economia con funzioni di regolazione del mercato.Egli riteneva,secondo l’insegnamento einaudiano,che le libertà individuali anche nel campo economico contro monopoli pubblici e privati fossero capisaldi essenziali in un’economia di mercato,per l’elevamento delle condizioni di vita dei cittadini.I pubblici poteri dovevano limitarsi alle funzioni ad essi proprie per sostenere i deboli senza umiliare i capaci;astenersi dall’elargizione di sussidi e prebende in cambio di consensi elettorali.
Venne il tempo,però,nel quale anche dall'interno del Partito cominciarono a crescere i dissensi che,difronte ai continui risultati elettorali negativi,richiedevano una maggiore flessibilità politica che,senza derogare ai principi,consentisse al PLI di non isolarsi all'interno del nuovo quadro politico sorto con la formazione del centrosinistra.Malagodi,in realtà,non era pregiudizialmente contrario ad una collaborazione con i socialisti ma riteneva necessario un loro effettivo distacco dai comunisti,cosa della quale dubitava.
Alla fine,Malagodi perse la sua battaglia e, con essa, la segreteria del Partito,ma gli anticorpi liberali non riuscirono a scalfire lo statalismo assistenziale che avrebbe intossicato l’Italia nei decenni futuri.Continuò,però,ad alimentare il suo liberalismo sia nell’Internazionale Liberale, della quale fu presidente fino al 1989 sia dal seggio al Senato,del quale fu anche Presidente.
Alla luce dell’esperienza successiva,non si può non riconoscere preveggenza e intuito alla linea politica di Malagodi.Così,ad esempio,nell’introduzione delle Regioni il grande liberale paventava il rischio della messa in pericolo dell’unità dello Stato che la nuova e confusa articolazione di poteri e funzioni avrebbe comportato(come poi è avvenuto)e il pericolo, poi divenuto triste realtà, che la spesa regionale sarebbe esplosa perché gestita da una classe politica che non doveva darne conto ai cittadini.
Malagodi condusse,poi,una fiera battaglia contro la nazionalizzazione del settore elettrico.Fino ad allora,l’energia elettrica era prodotta e distribuita da aziende di piccole e medie dimensioni.Nel 1962 i politici intuirono che l’energia elettrica poteva essere un affare per un paese energivoro come il nostro e,la DC e il PSI la nazionalizzarono,creando Enel(Ente nazionale per l’energia elettrica)che rilevò, strapagandole, tutte le imprese elettriche nazionali. Di fatto si introduceva una sorta di governo dell’economia e Malagodi denunciò che con la nazionalizzazione si compiva un esproprio perché si colpiva il valore di Borsa delle azioni delle piccole aziende.E' curioso,poi,che proprio un esponente del vecchio PCI,PDS,come Bersani,avviò il percorso opposto,quello malagodiano,cioè,con l'inizio della privatizzazione energetica italiana.
L’invadenza dello Stato nell’economia fu criticata da Malagodi non già per insensibilità sociale,ma perché produceva corruzione della vita pubblica,volta com'era a procurare consenso mediante le risorse pubbliche,creando categorie privilegiate e consentendo ai partiti politici di accedere alla gestione dei fondi pubblici mediante la nomina di persone meno competenti ma fedeli.Ed infatti lo statalismo denunciato da Malagodi ha progressivamente deteriorato i rapporti economici creando collusione tra il mondo politico e quello dell’economia,con annessi fenomeni di assistenzialismo e di corruzione,privilegiando gli interessi settoriali forti con una pubblicizzazione dell’economia senza vera socialità.Così,mentre lievitavano gli enti pubblici e la spesa pubblica, declinava lo spirito e la moralità pubblica.
Malagodi fece invece parte di tutt'altra classe dirigente il cui codice morale contemplava devozione al bene comune,scrupolosa probità,decoro,grande apertura culturale,fede sincera e appassionata nella democrazia liberale.
Si prova un vero fastidio se non proprio un senso di repulsione nel comparare questi modelli di uomini con il paesaggio politico attuale, fatto di demagogia,dileggio della cultura quale privilegio castale,della orgogliosa rivendicazione dell’incompetenza,di appiattimento, trasformista e narcisista.Ecco forse è(anche)questo il motivo per ricordare Malagodi.Un esempio che serva da monito,un’eredità preziosa per tentare di riempire il vuoto di oggi.
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