Ci sono giorni e ore che rimangono per sempre nella memoria individuale e collettiva.Sono i giorni del dolore causato dai disastri che negli anni hanno contrassegnato tante parti d'Italia.Rimarrà,ad esempio,sempre il ricordo delle ore 19,34 di quella domenica 23 novembre 1980:il giorno del terremoto in Irpinia.E si ricorderà per sempre il 17 maggio di quest'anno,con l'alluvione in Emilia Romagna.Un'altra data e un'altra ora di 60 anni fa non si potrà mai più dimenticare:le 22,39 del 9 ottobre 1963,il giorno e l'ora della frana del Vajont,nella valle del Piave.
Fino a quel giorno a Longarone,Pirago,Faè,Villanova,Rivalta,quei paesini ai piedi del Monte Toc,nella valle del Piave,tra i quali scorreva il torrente Vajont,anche la vita scorreva come tutte le altre sere degli altri autunni precedenti.
In quelle terre era stata edificata una diga che fu considerata una grandiosa opera di ingegneria,orgoglio della tecnica italiana,che conteneva un'immensa massa d'acqua:150 milioni di metri cubi.La diga era stata costruita dalla Società Adriatica di Elettricità (SADE)per la produzione di energia idroelettrica,in previsione del guadagno di enormi quantità di denaro.
Nessuno poteva presagire cosa poi sarebbe accaduto in quella sera di ottobre di 60 anni fa.Certo,il monte Toc,la montagna che sovrastava la diga,aveva già dato qualche segnale di preoccupazione con qualche cedimento franoso,e la gente del posto conosceva bene la fragilità di quella montagna(non a caso "Toc" in friulano significa "marcio,sfatto").E c’erano state le continue,ripetute denunce della coraggiosa giornalista dell'Unità Tina Merlin,che aveva segnalato il rischio ambientale che quella diga poteva causare.Ma nessuno veramente immaginava cosa poteva accadere qualora si fosse verificato quello che pure si temeva:il cedimento della diga.C'era timore perché la diga era stata costruita in una zona che,per le sue caratteristiche geomorfologiche,era inidonea all'edificazione di una tale opera.
Nessuno poteva presagire cosa poi sarebbe accaduto.Ed invece tutto accadde! Accadde che una frana mostruosa di 270 milioni di metri cubi di roccia e terra,precipitò dal monte Toc nel bacino della diga del Vajont:nel cadere nell’invaso,la frana sollevò un'ondata enorme, alta più di 200 metri,che precipitò a valle travolgendo tutto ciò che incontrò sul suo percorso,con una potenza che poi gli scienziati calcolarono essere pari a quella delle esplosioni atomiche di Hiroshima e Nagasaki.In pochi attimi morirono quasi 2000 persone,travolte dal fango,dai massi e dall'acqua che sommersero e cancellarono Longarone e tutti i paesini intorno.
Corpi,nudi,straziati,dilaniati,polverizzati,rimasero intrappolati in un immenso mare di fango oppure trasportati giù a valle per chilometri e chilometri,accatastati,incastrati contro le griglie,sugli argini,tra i detriti,tra tonnellate di legname.
I (pochi)sopravvissuti rammentarono poi un tremendo soffio d’aria che avanzava sempre più forte,tanto da denudarli,scaraventarli contro le case e gli alberi.L'indomani,alle prime luci dell'alba,si presentò un'allucinante scenario di morte.Dove prima c’erano case,strade,piazze,chiese,vita,non c'era altro che un'unica landa desolata di fango,macerie,distruzione.
Questo immane disastro non fu dunque un evento naturale:fu causato dall'avidità dell'uomo,che volle costruire una diga in un luogo inadatto,perchè esposto al forte rischio di frane.E tuttavia progettisti e dirigenti dell'azienda(con la complicità delle istituzioni nazionali interessate a "pompare" lo sviluppo industriale italiano per precisi interessi economici)occultarono tutto,mandando avanti il progetto.
La tragedia suscitò una forte ondata emotiva in tutto il Paese,e sul posto arrivarono le più grandi firme dei giornali.Ci andò Indro Montanelli.E ci andò Dino Buzzati che sul "Corriere",disegnò un’immagine restata famosa:"Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia.Tutto qui.Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna e di sotto,sulla tovaglia,stavano migliaia di creature umane".In quei posti andarono anche i grandi inviati del giornalismo italiano,come Giampaolo Pansa e Alberto Cavallari.Pansa scrisse un pezzo restato memorabile:"Scrivo da un paese che non esiste più:spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d’acqua,massi e terra piombata dalla diga".Cavallari,sul "Corriere",parlò delle vittime,raccontando che esse "non sono sepolti vivi.Sono sepolti morti.Un colonnello batte i piedi sulla ghiaia e dice nel buio:stiamo camminando su uno strato di almeno 1.500 morti.A dir poco”.
Da quel 9 ottobre di 60 anni tante altre sciagure hanno sconvolto il suolo italiano con terremoti,frane e alluvioni.Eppure,a 60 anni dal Vajont,la politica non ha fatto niente per la prevenzione del rischio idrogeologico,la messa in sicurezza e la corretta gestione del territorio,nonostante la fragilità idreogologica del nostro Paese(si potrebbe estendere a tutta Italia la definizione "sfasciume pendulo sul mare",che Giustino Fortunato,uno dei più prestigiosi meridionalisti,usò per definire la Calabria,per la sua instabilità idreogologica e l'incuria della classe dirigente).Questa fragilità idrogeologica necessita di interventi solleciti;eppure,nonostante gli ammonimenti anche di Papa Francesco,ancora pullula tutto un mondo "negazionista".
C'é bisogno di leggi contro l'uso indiscriminato del suolo e contro l’abusivismo edilizio.Invece ancora oggi si continua ad avere una visione ottusa e irresponsabile del problema.Ancora si continua,per interessi economici e per consensi elettoralistici,una sciagurata politica di sanatorie e "condoni" edilizi,salvo poi piangere i morti e levare il solito,miserevole,inutile grido:MAI PIU'.L'uomo non può pretendere di sottomettere la natura perché essa,prima o poi,si riprende gli spazi che le sono stati violentemente rubati.Solo preservando e conservando il pianeta,l'Uomo avrà la possibilità di scrivere la parola FUTURO per le generazioni che verranno dopo di noi.
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