Ed ora,che con l'aumento dei contagi si ritorna a parlare di nuovi lockdown,ti cadono addosso nuove angosce,legate al ricordo delle angosce già vissute,quel "male di vivere" dell'altra chiusura di spazi,di tempo e di vita.In quel tempo,prima del primo lockdown,si era ancora inconsapevoli di quello che stava per succedere.In quei giorni s'era tutti sui balconi e alle finestre e si cantava "Azzurro" di Celentano o "Nel cielo dipinto di blu" di Modugno e l'Inno di Mameli.Fuori i balconi e le finestre mettevamo striscioni con disegni di cieli azzurri e arcobaleni colorati con la scritta "andrà tutto bene".Ma presto capimmo che questa volta era diverso,che non stava andando tutto bene,che non c'era niente da cantare,e che quella "cosa" era una cosa maledettamente seria.Lo capimmo quando,a "quella" solita ora,alle 18,nelle conferenze stampa quotidiane della Protezione Civile conoscevamo quegli incredibili,tragici,numeri.E lo capimmo quando tv e giornali ci raccontavano dei reparti ospedalieri e delle terapie intensive strapiene di malati.E ancor di più lo capimmo quando vnimmo a sapere delle tante morti solitarie,della gente morta sola nelle corsie d'ospedale,senza nessuno accanto e poi sepolta senza nemmeno un funerale,senza poter essere accompagnata nemmeno da un familiare al camposanto.All'inizio fu in Lombardia e fu in Veneto,ma poi l'angoscia e la paura crebbero in tutta Italia.E ci furono le "zone rosse" e ci fu il "lockdown" nazionale.Tutti in casa per 3 mesi.Fabbriche e Chiese e università e scuole e cinema e stadi e negozi e alberghi chiusi e le città sprofondate in un cupo,drammatico,irreale silenzio.Mamme e papà e ragazzi a casa,seduti davanti al computer,collegati all'ufficio o alla scuola in modalità "smart working" o in "D.A.D.",orribile acronimo che sta per didattica a distanza.Venne poi maggio e i portoni delle Chiese cominciarono a riaprirsi e le saracinesche di bar e ristoranti faticosamente si rialzarono e la gente tornava ad uscire di casa,con quel nuovo modo di vita,con mascherina e "distanziamento".Nei talk show televisivi si diceva che poi quella vita "costretta" che avevamo vissuto poteva diventare una OPPORTUNITA' per cambiare.Ma davvero è andata così?Davvero potranno essere,a dir così,diversamente "positive"?Da alcuni studi si è rilevato che oggi la risposta a chi,per esempio, ci chiedesse:"Hai voglia di uscire stasera?"sarebbe,quasi sicuramente:"no,scusami,non mi va,magari domani".Risposte come questa,in questo tempo di post lockdown, sembrano far emergere interni dilemmi psicologici,angosce e incertezze esistenziali.Molti studiosi descrivono questi stati psicologici come la “sindrome della capanna” ,cioè la paura di uscire di casa,il timore di non esser pronti ad affrontare la nuova realtà,di non sentirsi al sicuro e non solo per la presenza del virus.L'aver trascorso tante settimane in isolamento ha forse abituato la nostra mente ad un senso di protezione che solo le mura di casa ci sanno dare.Adesso,affacciandoci alle finestre della nostra vita,e guardando fuori la vita di adesso,ci accorgiamo che c'è tutto un mucchio di cose là fuori,che non hanno le stesse forme di "prima".Certo,per i giovani è diverso:loro hanno fame di futuro e vanno a cercar vita nella "movida" e nelle discoteche.Ma in genere c'è poca voglia di andare in giro,anche solo a guardar vetrine,e se cinema e teatri fossero pure aperti,forse faremmo come Catone l'Uticense,che "andava a teatro per subito andarsene".Non abbiamo ancora elaborato e metabolizzato quello che è accaduto,che ancora sta accadendo.Quella questione di metri e mascherine,è un qualcosa che lascerà per sempre un segno.Ripensando ad alcuni momenti del lockdown,continuiamo ad avvertire un disagio intimo e profondo.Camminare adesso per le strade o le piazze,pensi a come erano quei posti nel "lockdown":deserte e silenziose,come in un quadro di De Chirico("Mistero e malinconia di una strada" è proprio il titolo di uno dei suoi più famosi dipinti).Ricordare mentalmente quel senso di isolamento,di disorientamento,di emergenza,fisica ed esistenziale,che abbiamo vissuto,che ci fa riflettere sul significato del tempo,di un drammatico passato,di un incerto presente.Ci sale da dentro la voglia magari,chissà,di andare via,in un qualunque altro "altrove",alla ricerca della normalità perduta.Come se poi altrove,in qualsiasi altra parte del mondo una normalità ci sia o ci sia stata.E poi c'è il disagio e l'insicurezza di stare in mezzo alla gente.La diffidenza e il sospetto verso l'altro:per il tizio senza mascherina;per la signora che sta a meno di un metro da me;perfino per l'amico che quasi respingiamo in queste nuove lontananze.Poi ci sono "loro",ci sono i bambini."Loro",hanno visto stravolta la loro piccola quotidianità.Nelle loro piccole esistenze ha fatto irruzione la paura:la paura per quel virus che si portava via i nonni.Ma anche la paura di non poter vedere i loro insegnanti e i loro compagni di scuola.Ai bambini,però,non è stato tolto "solo" un pezzo di Tempo.A loro sono stati tolti pezzi di vita:una passeggiata,l'abbraccio dei compagni,le giostre nei giardini pubblici,l'aria e il sole delle domeniche di prima primavera,la possibilità di stare in classe con i loro compagni,imparando a collaborare,a fidarsi degli altri,a sviluppare empatia.L'interruzione della scuola ha significato anche interruzione del processo di integrazione dei bambini di diversa nazionalità e di diversa abilità,arrecando così danni incalcolabili al futuro di queste generazioni e al futuro di questo Paese,già così povero di nuove nascite.Ecco.La memoria di quel tempo e di quei giorni e la paura del ritorno di quella specie di vita,fa crescere dentro ognuno di noi nuove angosce ed oppressione.Proprio adesso,proprio ora,che stavamo cercando di "uscire dalla capanna".
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