12 giugno 2025

THOMAS MANN, IL PENSIERO COME LIBERTA'

Nel 2025 ricorre un doppio anniversario per il grande scrittore tedesco Thomas Mann,Premio Nobel della Letteratura nel 1929: 150 anni dalla nascita (Lubecca, 6 giugno 1875) e 70 dalla morte (Zurigo, agosto 1955).Eppure quasi nessun ricordo,nessuna manifestazione per ricordare la grandezza di pensiero di Thomas Mann,non solo per la sua straordinaria produzione  letteraria ( I Buddenbrook,La morte a Venezia,Tonio Kröger, La montagna incantata, Doctor Faustus,  Considerazioni di un impoliticoper citarne solo qualcuna)ma anche per quello che egli ha rappresentato nel dibattito culturale e politico d’Europa,e per le sue parole sul ruolo dell’intellettuale nella società.

Nonostante questo ed in un tempo in cui scrittori e pensatori sono diventati soggetti autoreferenziali ai Saloni del Libro,nei festival o sui social,Mann ritorna con forza,perchè egli,forse,fu l’ultimo vero scrittore europeo: raffinato nella scrittura, spietato nella denuncia, profondamente politico senza essere ideologico.

Nelle sue opere Thomas Mann ragionava sui principi,sui valori che guidano l'azione umana,alla ricerca di quella linea esistenziale che separa il bene dal male(si pensi al "Faust")il giusto dall'ingiusto.

In ogni suo lavoro Mann scrive mai per compiacere ma sempre con il coraggio,pur consapevole dei rischi personali che correva,di denunciare gli incubi che nel nuovo mondo si profilano con l'avvento del nazismo(Mann si oppose decisamente al nazismo,e fu perciò che dovette rifugiarsi all'estero,prima in Cecoslovacchia,poi in Francia ed infine negli USA.Le sue posizioni contro il regime tedesco sono riassunte soprattutto in un'opera,"L'odio" critica implacabile della violenza nazista.

Se queste dunque erano le sue idee egli non poteva non essere contro la semplificazione,contro il populismo, contro la vacuità delle passioni deboli e delle opinioni forti.Il suo scrivere è contro l’anestesia dello spirito,contro il sonno della Ragione.Ed è per questo che si cerca di ammutolire la sua voce nella dimenticanza.La dimenticanza di Mann è una diagnosi perfetta del nostro tempo:un’epoca che preferisce la leggerezza all’analisi,la superficialità all'approfondimento,i like al pensiero.E che ignora i nuovi grandi pericoli che ora come allora incombono sull'Europa,sulla sua cultura e sulla sua libertà.

Nei suoi scritti Mann esprime una profonda preoccupazione per il destino dell'Europa e l'ascesa del fascismo e del nazismo, lanciando "avvertimenti" e "moniti" all'Europa perchè preservi la ricchezza della propria cultura.Mann,in particolare,si concentra sulla fragilità della democrazia e la necessità di difendere la libertà contro la minaccia del totalitarismo facendo leva proprio sul patrimonio della tradizione culturale europea.Ecco perchè i suoi "Moniti all'Europa" continuano ad essere di grande attualità in un momento in cui il Vecchio Continente è difronte agli incubi portati da nuove dittature.
Mann rivolgeva quegli appelli all'Europa perchè ben consapevole di quanto accadeva in Europa.Chi legge "I Buddenbrook" o "La montagna incantata" non trova solo romanzi:trova il racconto di un mondo in disfacimento,il ricordo di com'era l’uomo occidentale difronte all'attuale suo decadimento,in una debolezza di pensiero che di lì a qualche anno avrebbe favorito l'avvento del nazismo.

Questa decadenza,questo disfacimento del mondo occidentale è ancor più evidenziato ne:"La Morte a Venezia".Il protagonista del romanzo,Gustav von Aschenbach,è l’emblema dell’intellettuale europeo:razionale,disciplinato, votato alla forma come argine al caos,o,per dirla con Nietzsche,all'apollineo contro il dionisiaco.Ma proprio lui,uomo del rispetto della forma,si perde in quella città languida e marcescente. Si perde desiderando la bellezza, nel silenzio di quella ragione a cui sempre s'era ispirato.Perchè Venezia,in Mann, è più di una città:è uno specchio che rimanda un’immagine che fa paura.È l’immagine di un’Europa incerta, molle, pavida. È il riflesso di un pensiero che ha smesso di guardare al presente.E' l’Occidente rammollito,narcotizzato,incapace di riconoscere il pericolo anche quando questo è in arrivo che nel romanzo è metaforicamente rappresentato dalla peste che devasterà Venezia.La peste è metafora potentissima:non è solo malattia fisica,ma decadimento del pensiero,collasso dell’etica.E Aschenbach è l’intellettuale di oggi.Non esce,non si lascia turbare,non rischia nulla.Si adatta.Evita l'impegno diretto.

Ciò che Mann mette in scena nei suoi capolavori è il tramonto della cultura come forza vitale.Le parole di Mann ci chiamano,collettivamente e individualmente,alla responsabilità: essere degni della nostra coscienza,non assopirci nel sonno della Ragione,pur quando ogni speranza sembra mancare.Ecco perché Mann viene rimosso:perché è "pericoloso".Non intrattiene,non rincuora ma costringe a pensare.

Anche la cultura e gli intellettuali hanno il dovere di agire:la cultura deve parlare alla storia,deve prendere posizione, deve rischiare. Esule dal nazismo, profeta lucido della crisi europea, la sua voce risuona nell'opera "Diari" con una forza che oggi suona profetica.L’intellettuale,per Mann,deve essere coscienza del suo tempo,proprio perchè la coscienza collettiva langue,è anestetizzata da una cultura che fa del consenso l’unica parametro di riferimento.

Quando però qualcuno torna a leggere Mann sente qualcosa dentro.Non è nostalgia:è resistenza,voglia di reagire.Nel leggere Mann la mente si allarga,la consapevolezza cresce,la coscienza si rafforza. Ci scopriamo meno disposti a credere alle bugie,a quelle che una politica e una cultura servile ci raccontano e a quelle che raccontiamo a noi stessi.

In un tempo che fa di una comunicazione distorta il proprio vanto e dell’ignoranza una virtù, Mann ci ricorda che il pensare è un atto di coraggio. E che leggere è forse l’unica forma di libertà rimasta.

04 giugno 2025

18 ANNI DI RAGIONEVOLI DUBBI





Era l'agosto del 2007,18 anni fa,quando l'Italia venne emotivamente colpita da quello che poi sarebbe stato conosciuto come il "caso Garlasco".Nell'antivigilia di ferragosto di quell'anno,il 13 agosto,Chiara Poggi,una ragazza di 26 anni,venne trovata uccisa in una pozza di sangue nella sua villetta di Garlasco,un paese di poco più di 8000 abitanti in provincia di Pavia.Dopo 2 assoluzioni in primo e secondo grado venne dichiarato colpevole Alberto Stasi,fidanzato di Chiara.

Oggi,dopo 18 anni,quel caso è stato riaperto dalla Procura di Pavia,in base a presunti nuovi elementi.Nell'opinione pubblica nazionale si è così creato sconcerto e disorientamento difronte alla riapertura dell'inchiesta che si riteneva chiusa con la condanna di Alberto Stasi.E per chi crede in uno stato di diritto viene da chiedersi:se il "caso Garlasco" è stato riaperto dopo così tanti anni,può essere che altri casi giudiziari del genere siano riaperti ?E se sì quanto è giusto che duri un processo ? E ancora:non si può esser sicuri nemmeno che una condanna inflitta con sentenza passata in giudicato sia giusta e certa ?

Già,perchè a ricordare tutti i "cold case" italiani,tutti i casi giudiziari degli ultimi 40-50 anni restati irrisolti o apparentemente risolti ma che ancora suscitano dubbi e perplessità sulla giustezza delle sentenze,c'è un qualcosa di più generale che sta avvenendo.Avviene cioè che in questo nuovo incerto tempo che viviamo è come se fossimo in un'atmosfera sospesa,un generale clima di azzeramento di entusiasmo e fiducia,di declino,morale e sociale nel quale è maturato un senso diffuso di sfiducia nel futuro e verso le istituzioni del Paese.E nella più generale crisi di fiducia e disistima delle istituzioni,è la giustizia a subirne i danni più rilevanti.E questo è grave per tutta la collettività,perchè in un Paese progredito la giustizia è istituzione irrinunciabile:essa garantisce l’osservanza delle regole,senza distinzione di razza,sesso, religione, appartenenza politica,e quindi uguale per tutti. Il sistema delle norme alla cui tutela la giustizia è posta,disciplina la convivenza civile: allorquando viene violato, si instaura un processo finalizzato a ristabilire l’equilibrio sul quale si incentra il rapporto tra i cittadini.Ed è perciò essenziale che questo meccanismo sia capace di dare risposte corrette:ogni errore non soltanto perpetua la violazione della regola ma crea ulteriori squilibri,suscita risentimento e diffonde sfiducia.

Certo,l’errore è parte dell’agire umano e neppure la giustizia sfugge a questa logica.Ma proprio per l'importanza del suo ruolo,quando la giustizia sbaglia si diffonde lo sconcerto: la responsabilità di chi è stato condannato con sentenza definitiva viene sovvertita. L’illecito, che si riteneva essere stato risolto nella convinzione di avere punito il colpevole,torna a essere un fatto irrisolto.Ed ecco che questa incertezza produce dolore,sfiducia e rabbia:in chi credeva di vedere avuto almeno parziale sollievo con la condanna del responsabile;in chi è stato ingiustamente punito;in chi si trova ora al centro delle accuse.

È quanto è avvenuto con la riapertura del caso del delitto di Garlasco:l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quella certezza di una giustizia finalmente fatta con la condanna di Alberto Stasi.Ed ora che tutto viene rimesso in discussione è difficile immaginare quali siano i sentimenti dei genitori di Chiara,quale sia la condizione di Stasi che ha già scontato 10 anni di carcere e quale sia la sofferenza di Andrea Sempio,il nuovo indagato.Ma grande è lo sconcerto che s'ingenera anche nel cittadino e che produce sfiducia nella magistratura.

Proprio per evitare situazioni del genere,il legislatore ha introdotto una precisa norma:il giudice condanna solo se l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio"(art. 533 Codice Procedura Penale).Ed è questo il cardine di uno stato di diritto:quando le indagini non sono riuscite a fornire la prova certa della responsabilità di un individuo si deve procedere alla sua assoluzione,e quella che potrebbe sembrare la "debolezza" del sistema giudiziario ne rappresenta invece la forza; l’irrisoluzione del delitto è il prezzo che si deve pagare per evitare l’incertezza della condanna, suscettibile di produrre effetti ancor più gravi e dolorosi.E nota è la massima:"meglio un colpevole in libertà che un innocente in galera".

Il caso di Garlasco,allora,non è solo un caso di cronaca giudiziaria.Non è neppure e soltanto la conseguenza di indagini condotte con pressapochismo e superficialità e di un interrogatorio fatto a Stasi con metodi,a dir così,non proprio "garantisti".Forse è "anche" questo ma non è "solo" questo;è soprattutto un’enorme questione posta al cuore dello Stato di diritto e del tessuto della democrazia. 

Finora c'è un condannato con sentenza definitiva,Alberto Stasi, che si è sempre proclamato innocente e che due volte è stato assolto, prima di venire condannato definitivamente in Cassazione.Gli avvocati della famiglia della vittima invitano a non rinnovare oltre il comprensibile,straziante dolore della famiglia,e a fermarsi davanti a quella sentenza di condanna per omicidio volontario,pronunciata in base ai principi della Costituzione.Ma pur nel rispetto di quell'indicibile dolore è proprio quella Costituzione che impone che tutti gli imputati siano ritenuti innocenti fino a una sentenza definitiva di condanna che va pronunciata,appunto,“oltre ogni ragionevole dubbio”,e cioè quando i giudici abbiano acquisito la convinzione che la colpevolezza dell'imputato sia così solida da escludere il sia pur minimo dubbio razionale sulla sua responsabilità.Ma quella convinzione di colpevolezza proclamata così forte nel giudizio di Cassazione,così forte poi non è se oggi è la stessa magistratura competente a dubitarne tanto da riaprire l’indagine.

Ecco perchè la riapertura di questo caso mette in luce tutta una serie di questioni politiche ma anche giuridiche e di civiltà del diritto che risaltano dalle parole di uno dei giudici che svolse le indagini sul caso Garlasco e che poi assolse Stasi.Quel giudice si chiama Stefano Vitelli,il quale,commentando oggi i fatti e le decisioni di allora,dice un qualcosa che sembrerebbe scontato secondo i principi della democrazia costituzionale e cioè che senza la certezza di una colpevolezza,c'è l'obbligo di assolvere.Ed è proprio per questo,che Vitelli assolse Stasi:non perché era certo della sua innocenza,ma perchè non era sicuro della sua colpevolezza.Ed è tutta qui la base di uno Stato di diritto:per assolvere basta un dubbio, per condannare serve la certezza.

Certo,è comprensibile ed umano sentirsi dalla parte della vittima e di chi la piange.E tuttavia, la cifra di una democrazia fondata sullo Stato di diritto si misura principalmente non per come sa dare una consolazione qualsiasi alla memoria delle vittime e ai loro cari, ma per come sa garantire gli imputati, prima e dopo che siano giudicati colpevoli.E cioè non dobbiamo pensarci o sentirci dalla parte di Chiara Poggi o dei suoi cari che giustamente la piangono,ma dobbiamo pensarci imputati alla sbarra per il suo omicidio. Immaginare che potremmo essere noi,da innocenti,a trovarci condannati ingiustamente o che in quella posizione orribile potrebbe trovarsi qualcuno al quale vogliamo bene.

Nelle prossime settimane o forse addirittura nei prossimi anni sapremo quale sarà stato l'epilogo di questo caso.Nello stesso tempo capiremo l'eventuale fallimento o meno di un sistema giudiziario.Ma la cosa più importante,anche se difficile da accettare sarà sempre e solo una:nessuno può essere condannato se non viene superato ogni ragionevole dubbio.Valeva per Stasi,vale per Sempio,e per chiunque altro.Fino ad arrivare all’estrema conseguenza,per cui non potendosi dire con certezza chi abbia ucciso una ragazza nel mezzo di un giorno d'agosto,ci sarà un assassino che sarà libero,ma almeno nessun innocente finirà in galera.Anche questo è Stato di diritto.