24 giugno 2025

RISVEGLIARE LA RAGIONE




Ed alla fine è successo quello che molti avevano temuto ma che in fondo non si credeva potesse mai avvenire.Alla fine gli Stati Uniti di Donald Trump hanno bombardato i siti nucleari iraniani in sostegno di Israele,la cui cancellazione dalla faccia della terra è stato da sempre l'obiettivo dichiarato degli ayatollah iraniani.

Difronte a questo scenario  l’Europa e il mondo intero sembrano essere stati colti di sorpresa,come sonnambuli risvegliati da un sonno profondo,ritrovandosi difronte a scenari di guerra con l'angoscia di essere sull’orlo di un abisso.Sembra essere tornati all'inizio del secolo scorso quando i popoli del primo Novecento si ritrovarono precipitati nella Grande Guerra quasi senza accorgersene,come sonnambuli che si aggiravano nella notte sempre più buia del Mondo.Eppure in quell'epoca il Vecchio Continente dell’Impero austro-ungarico in particolare, viveva in una condizione di benessere così come ce lo descrive nei suoi libri il grande scrittore austriaco Stefan Zweig.La "Felix Austria" colta e liberale di fine Ottocento e del primo Novecento costituiva il suo nutrimento culturale:"Era dolce vivere in quell'atmosfera di tolleranza, dove ogni cittadino -scrive Zweig -senza averne coscienza veniva educato a essere supernazionale e cosmopolita".Insomma,non c’era un motivo per spingere quel mondo verso l’autodistruzione.
Eppure l'inimmaginabile avvenne.Avvenne con l'attentato di Sarajevo nel quale lo studente bosniaco Gavrilo Princip uccise con un colpo di pistola l’erede al trono dell'Impero Austro-ungarico Francesco Ferdinando che portò alla Grande Guerra,un'immane  mattanza che cancellò la vita di 21 milioni di persone,lasciandone ferite altrettante tra militari e civili.

Quel colpo di pistola non fu opera di uno squilibrato ma il portato di tutta una'altra serie di cause che generarono il conflitto.La Prima Guerra Mondiale fu originata da motivi profondi e l'attentato di Sarajevo fu solo il fattore scatenante.L'Europa era percorsa da forti tensioni nazionalistiche, con movimenti che miravano all'indipendenza e all'autonomia nazionale.L'Impero Austro-Ungarico,in particolare,si trovò a fronteggiare le aspirazioni indipendentiste dei popoli slavi,tra cui la Serbia di Gavrilo Princip.L'attentato al successore dell'Impero divenne così la motivazione per l'Austria di regolare una volta per reprimere le aspirazioni indipendentische della Serbia.
Ma tutto precipitò perchè c'era il gioco delle alleanze militari come la Triplice Intesa (Francia, Russia, Gran Bretagna)e la Triplice Alleanza(Germania,Austria-Ungheria, Italia),che,con i patti di mutuo soccorso,trasformarono un conflitto regionale in una guerra su scala mondiale.Quei patti esprimevano in realtà le ambizioni imperialistiche dei singoli Stati,la Germania in particolare,che ambiva a estendere la propria influenza politica ed economica a danno di Francia e Gran Bretagna.

E così anche oggi ci risvegliamo,come nel 1914,sorpresi e impreparati difronte ai nuovi venti di guerra,perchè forse abituati a vivere,almeno fino a 2-3 anni fa,in un tempo di stabilità e relative sicurezze.Ci ritroviamo sorpresi difronte ai nuovi scenari di guerre in Ucraina,Gaza e ora Iran,non comprendendo quasi come sia potuto succedere.Eppure questo è il tempo in cui le informazioni arrivano in tempo reale.Siamo nell’era della cybersicurezza e degli spy-ware, dei satelliti occhiuti e precisi, delle tecnologie invasive, del capitalismo della sorveglianza, dei social e dell’intelligenza artificiale.
La tecnologia procede in tempi incredibilmente brevi e dunque sappiamo degli spietati Ayatollah iraniani,conosciamo le paure di Israele per la sua sopravvivenza, lo strazio di Gaza,le mostruose violenza russe in Ucraina,le ambizioni cinesi e l'agire dello psicopatico nordcoreano.
Eppure, rispetto a questi scenari, ci muoviamo ancora come i nostri bisnonni:spinti da un preistorico e rozzo senso di stupida appartenenza ad una sacra idea di patrottismo,restiamo ancora fermi in antistorici nazionalismi.In un tempo di rinascenti sovranismi si rivendica ancora l'appartenenza a minime parti del mondo globalizzato,declinando beceri linguaggi stile "America first" o "Prima gli italiani",con un riflesso paleolitico che sta smantellando ogni organizzazione sovranazionale,dalla Nato all'Onu,all'Oms,cioè,paradossalmente,proprio quegli organismi sovranazionali che nel momento dell'emergenza,come al tempo del Covid,ci hanno salvato.Del resto è la Storia a dirci che furono proprio ottusi nazionalismi a precipitarci in entrambe le Guerre mondiali che portarono a milioni di persone sterminate sui campi di battaglia e nelle camere a gas.
Siamo poi riusciti ad uscire da quelle tragedie proprio superando sovranismi e nazionalismi grazie alle idee di grandi uomini che credettero nel grande sogno di una Europa unita.

Ma la memoria di quei giorni orribili è come svanita e siamo tornati alle piccole patrie,al rifiuto di capire il dolore collettivo,all’anestesia dell’umanità.Questo rifiuto di una comprensione e condivisione del sentimento collettivo di sofferenza,permette che avvengano nuove stragi quotidiane su una popolazione massacrata mentre è in fila per il pane a Gaza o in Ucraina,fatti sui quali abbiamo perfino smesso di indignarci.

Con la spaventosa pressione dei conflitti alle nostre porte e con gli egoismi neonazionalismi dilaganti,riuscirà l'Europa a ribellarsi ai deliri di onnipotenza della Grande Russia,della Grande Cina o dell’America First?La risposta,nonostante tutto,è SI,perchè l'Europa ha una sua superiorità etica e valoriale nei confronti del gangsterismo trumputiniano,e può far valere la grandezza delle proprie tradizioni,della propria storia millenaria,della propria cultura e civiltà.Questo SI è però subordinato a un PRESTO;bisogna svegliarsi da quel sonno nel quale gli europei sembrano essere caduti.E bisogna farlo presto,perchè il tempo sta finendo;dobbiamo risvegliarci e ritornare ad essere l'Europa che eravamo e riprenderci il ruolo di guida planetaria;l'alternativa è trasformarci invece nelle vestigia di un tempo che fu,seppellita dai nuovi gangsterismi mondiali.
Tornare ad essere.Perchè l'Europa è stata sempre un modello sociale:con servizi pubblici forti, protezione sociale, meno disuguaglianze. E lo è ancora.Forse lo si dà per scontato e lo sottovalutiamo.Ma non lo è.Quella socialità si coniuga bene con il concetto di libertà che non è solo individualismo.Libertà significa infatti combattere insieme per valori comuni e proprio gli Stati Uniti sono stati a lungo visti come la terra della libertà,cosa che invece più non è mentre è l'Europa ad incarnare questi valori.

Non possiamo lasciar spazio alla rinuncia e alla rassegnazione.Il destino dell'Europa,che poi è il nostro destino,dipende da noi e bisogna prendere coscienza dei rischi,avendo la capacità di immaginare e la forza di costruire un diverso futuro per evitare l'incubo di quell'inizio del secolo scorso cominciato a Sarajevo.Possiamo anche non comprendere i tempi,ma la Storia sta lì a ricordarci ciò che è stato e che ancora potrebbe essere.Possiamo far finta di niente e continuare in questo sonno della Ragione.Salvo poi trovarci al risveglio difronte a altri drammatici eventi che ci cambieranno,volenti o nolenti,le nostre vite e le nostre piccole esistenze.

19 giugno 2025

GOBETTI, IL "RIVOLUZIONARIO" LIBERALE





Il 19 giugno 1901 nasceva a Torino Piero Gobetti.La notorietà di Gobetti è legata soprattutto alla forza di suggestione della sua idea di “rivoluzione liberale”.Può sembrare paradossale,ma egli non diede mai una definizione precisa di quel concetto,nemmeno nell'omonima rivista da lui fondata("La Rivoluzione Liberale" appunto).Gobetti,d’altra parte,non era un pensatore rigido e schematico,ma «un agitatore d’idee,lucido, intrepido, appassionato»,come di lui ebbe a dire il filosofo Norberto Bobbio.Ed infatti Gobetti esponeva le proprie tesi riferendosi ad autori anche molto distanti tra loro(Croce,Einaudi, Salvemini,Marx)perchè avvertiva l'esigenza di un coinvolgimento di ogni tradizione culturale per il rinnovamento della società del proprio tempo.

Il concetto di “rivoluzione liberale” può forse essere meglio capito guardando al contesto storico in cui maturò quell'idea.Gobetti,già nell’adolescenza,era suggestionato,come tanti studenti della sua generazione,dal mito di un rinnovamento radicale della nazione attraverso l’esperienza bellica,sentendosi spiritualmente vicino al cosiddetto “interventismo democratico” espresso dalle correnti intellettuali e politiche rappresentate dalle riviste fiorentine «La Voce» di Giuseppe Prezzolini e «L’Unità» di Gaetano Salvemini.Appena 17enne,nel 1918,fondò la sua prima rivista,«Energie nove», coinvolgendo alcuni compagni di scuola(tra cui la futura moglie,Ada Prospero).Quella rivista fu molto apprezzata dagli stessi Salvemini e Prezzolini per il tentativo di dar voce all'inquietudine di un'intera generazione spinta dalla volontà di superare la politica e la cultura dell'età giolittiana.Ma già nel 1920 Gobetti si allontanò da quell'esperienza,e nonostante la fortuna che quella rivista ebbe,decise di chiudere "Energie Nove",per un bisogno di "raccoglimento" e di "silenzio" per elaborare percorsi assolutamente nuovi,come egli scrisse nell'ultimo articolo.

Cominciò così per Gobetti un lavoro di ripensamento critico della realtà storica e politica italiana,nel quale approfondì gli studi sul Risorgimento,sulla Rivoluzione russa e sul ruolo del movimento operaio.Questo portò Gobetti a formulare un bilancio drasticamente negativo dell’azione delle classi dirigenti liberali a partire dal Risorgimento e dal processo di unificazione,sino alla drammatica crisi del dopoguerra e all’affermazione del fascismo che,con una delle sue espressioni più geniali definì «l’autobiografia della nazione»,per significare che il fascismo non era imposizione dall'alto,quanto piuttosto un fenomeno radicato nella storia e nella cultura italiana,rivelando una tendenza collettiva ad una "servitù volontaria",sedimentatasi in una nazione culturalmente arretrata,non essendo avvenuti,come altrove in Europa,quei processi di modernizzazione della società.L'avvento del fascismo aveva certificato questa condizione ma,paradossalmente,proprio la lotta al fascismo poteva offrire l'occasione per una rinnovare la nazione con nuove "élites" per mezzo delle quali rigenerare il costume etico e politico degli italiani in senso liberale.

Gobetti si convinse che la criticità della realtà italiana consistesse nell’esclusione delle classi lavoratrici dalla vita politica e istituzionale del paese,dovuta all'egoismo delle classi dirigenti che impediva i processi di modernizzazione della società.Per Gobetti il mondo moderno s'era storicamente sviluppato proprio nei conflitti economico-sociali tra le classi,con la formazione continua di nuove élite che,nel battersi per i propri interessi, concorrevano a rendere vitale l’intera società.Il ruolo del movimento operaio risultava allora assolutamente decisivo,perché rappresentava il desiderio di emancipazione delle classi lavoratrici ma anche una risorsa delle società liberali.

Per queste sue posizioni, Gobetti andò incontro a numerose polemiche. Ci fu chi lo indicò come un comunista travestito da liberale,per la sua collaborazione con il giornale torinese «Ordine nuovo» di Antonio Gramsci.E significativo fu il commento che la «Critica sociale»(la prestigiosa testata diretta da Filippo Turati) dedicò all’uscita del volume "La rivoluzione liberale":"Chi è Gobetti?E' un liberale?Un conservatore?Un comunista?O tutte e tre le cose assieme? E come si possono conciliare?Di certo è un agitatore di idee,un tenace antifascista,dietro al quale vanno molti altri  giovani".

In realtà Gobetti era e rimaneva un liberale, che dell’ideologia socialista non condivideva assolutamente nulla,né sul piano filosofico, né su quello economico e sociale.Egli rimase sempre fedele agli insegnamenti di Benedetto Croce e Luigi Einaudi.Epperò il liberalismo gli sembrava improduttivo se fosse rimasto ancorato (come ancora accadeva in Italia)a vecchi pregiudizi di classe e a concezioni ristrette e oligarchiche dello Stato.Bisognava quindi che le teorie liberali si rinnovassero profondamente, tornando a svolgere la loro originaria funzione di guida e lotta delle classi borghesi contro i privilegi feudali prima e aristocratici poi, affermando i principi di libertà e di autonomia degli individui,creando una morale pubblica basata sui valori della competizione e del merito.

Per questo era indispensabile confrontarsi con le forze organizzate del movimento operaio, senza timore di “sporcarsi le mani” e senza nulla concedere all’ideologia socialista.Ecco,dunque,cosa significava per Gobetti la formula “rivoluzione liberale”.Egli proponeva una riforma dei valori liberali classici nel mondo nuovo che stava nascendo.Il suo fu un impegno culturale e politico di rinnovamento della teoria e della prassi liberali,rivolto non solo al tradizionale mondo liberale, ma agli elementi più giovani e indipendenti di tutti i partiti, compresi quelli socialisti,comunisti e dei cattolici.Certo quel progetto,per le vicende storiche del periodo in cui la sua breve vita si sviluppò(morì a soli 26 anni,massacrato dalle feroci,molteplici aggressioni delle squadracce fasciste)non trovò pratica attuazione,ma riemerse più tardi in alcuni settori dell’antifascismo italiano, in particolare del gruppo di "Giustizia e Libertà" e poi nel "Partito d’Azione".

Il liberalismo di Gobetti non è una espressione ideologica ma una cultura politica di carattere universale,valida in ogni epoca e in ogni circostanza storica per gli individui in lotta per la propria indipendenza e libertà.Una cultura "rivoluzionaria",mirando essa a una continua trasformazione  della società moderna.E' proprio perciò che ancora oggi Gobetti è un personaggio che continua ad affascinare.In un tempo come il nostro che sembra aver liquidato le ideologie socialiste e comuniste ma non quella della "dittatura della Democrazia",come diceva Tocqueville,l’idea gobettiana di coniugare “liberalismo” e “rivoluzione” è sempre una strada per chi voglia realizzare un mondo più giusto e più libero.

12 giugno 2025

THOMAS MANN, IL PENSIERO COME LIBERTA'

Nel 2025 ricorre un doppio anniversario per il grande scrittore tedesco Thomas Mann,Premio Nobel della Letteratura nel 1929: 150 anni dalla nascita (Lubecca, 6 giugno 1875) e 70 dalla morte (Zurigo, agosto 1955).Eppure quasi nessun ricordo,nessuna manifestazione per ricordare la grandezza di pensiero di Thomas Mann,non solo per la sua straordinaria produzione  letteraria ( I Buddenbrook,La morte a Venezia,Tonio Kröger, La montagna incantata, Doctor Faustus,  Considerazioni di un impoliticoper citarne solo qualcuna)ma anche per quello che egli ha rappresentato nel dibattito culturale e politico d’Europa,e per le sue parole sul ruolo dell’intellettuale nella società.

Nonostante questo ed in un tempo in cui scrittori e pensatori sono diventati soggetti autoreferenziali ai Saloni del Libro,nei festival o sui social,Mann ritorna con forza,perchè egli,forse,fu l’ultimo vero scrittore europeo: raffinato nella scrittura, spietato nella denuncia, profondamente politico senza essere ideologico.

Nelle sue opere Thomas Mann ragionava sui principi,sui valori che guidano l'azione umana,alla ricerca di quella linea esistenziale che separa il bene dal male(si pensi al "Faust")il giusto dall'ingiusto.

In ogni suo lavoro Mann scrive mai per compiacere ma sempre con il coraggio,pur consapevole dei rischi personali che correva,di denunciare gli incubi che nel nuovo mondo si profilano con l'avvento del nazismo(Mann si oppose decisamente al nazismo,e fu perciò che dovette rifugiarsi all'estero,prima in Cecoslovacchia,poi in Francia ed infine negli USA.Le sue posizioni contro il regime tedesco sono riassunte soprattutto in un'opera,"L'odio" critica implacabile della violenza nazista.

Se queste dunque erano le sue idee egli non poteva non essere contro la semplificazione,contro il populismo, contro la vacuità delle passioni deboli e delle opinioni forti.Il suo scrivere è contro l’anestesia dello spirito,contro il sonno della Ragione.Ed è per questo che si cerca di ammutolire la sua voce nella dimenticanza.La dimenticanza di Mann è una diagnosi perfetta del nostro tempo:un’epoca che preferisce la leggerezza all’analisi,la superficialità all'approfondimento,i like al pensiero.E che ignora i nuovi grandi pericoli che ora come allora incombono sull'Europa,sulla sua cultura e sulla sua libertà.

Nei suoi scritti Mann esprime una profonda preoccupazione per il destino dell'Europa e l'ascesa del fascismo e del nazismo, lanciando "avvertimenti" e "moniti" all'Europa perchè preservi la ricchezza della propria cultura.Mann,in particolare,si concentra sulla fragilità della democrazia e la necessità di difendere la libertà contro la minaccia del totalitarismo facendo leva proprio sul patrimonio della tradizione culturale europea.Ecco perchè i suoi "Moniti all'Europa" continuano ad essere di grande attualità in un momento in cui il Vecchio Continente è difronte agli incubi portati da nuove dittature.
Mann rivolgeva quegli appelli all'Europa perchè ben consapevole di quanto accadeva in Europa.Chi legge "I Buddenbrook" o "La montagna incantata" non trova solo romanzi:trova il racconto di un mondo in disfacimento,il ricordo di com'era l’uomo occidentale difronte all'attuale suo decadimento,in una debolezza di pensiero che di lì a qualche anno avrebbe favorito l'avvento del nazismo.

Questa decadenza,questo disfacimento del mondo occidentale è ancor più evidenziato ne:"La Morte a Venezia".Il protagonista del romanzo,Gustav von Aschenbach,è l’emblema dell’intellettuale europeo:razionale,disciplinato, votato alla forma come argine al caos,o,per dirla con Nietzsche,all'apollineo contro il dionisiaco.Ma proprio lui,uomo del rispetto della forma,si perde in quella città languida e marcescente. Si perde desiderando la bellezza, nel silenzio di quella ragione a cui sempre s'era ispirato.Perchè Venezia,in Mann, è più di una città:è uno specchio che rimanda un’immagine che fa paura.È l’immagine di un’Europa incerta, molle, pavida. È il riflesso di un pensiero che ha smesso di guardare al presente.E' l’Occidente rammollito,narcotizzato,incapace di riconoscere il pericolo anche quando questo è in arrivo che nel romanzo è metaforicamente rappresentato dalla peste che devasterà Venezia.La peste è metafora potentissima:non è solo malattia fisica,ma decadimento del pensiero,collasso dell’etica.E Aschenbach è l’intellettuale di oggi.Non esce,non si lascia turbare,non rischia nulla.Si adatta.Evita l'impegno diretto.

Ciò che Mann mette in scena nei suoi capolavori è il tramonto della cultura come forza vitale.Le parole di Mann ci chiamano,collettivamente e individualmente,alla responsabilità: essere degni della nostra coscienza,non assopirci nel sonno della Ragione,pur quando ogni speranza sembra mancare.Ecco perché Mann viene rimosso:perché è "pericoloso".Non intrattiene,non rincuora ma costringe a pensare.

Anche la cultura e gli intellettuali hanno il dovere di agire:la cultura deve parlare alla storia,deve prendere posizione, deve rischiare. Esule dal nazismo, profeta lucido della crisi europea, la sua voce risuona nell'opera "Diari" con una forza che oggi suona profetica.L’intellettuale,per Mann,deve essere coscienza del suo tempo,proprio perchè la coscienza collettiva langue,è anestetizzata da una cultura che fa del consenso l’unica parametro di riferimento.

Quando però qualcuno torna a leggere Mann sente qualcosa dentro.Non è nostalgia:è resistenza,voglia di reagire.Nel leggere Mann la mente si allarga,la consapevolezza cresce,la coscienza si rafforza. Ci scopriamo meno disposti a credere alle bugie,a quelle che una politica e una cultura servile ci raccontano e a quelle che raccontiamo a noi stessi.

In un tempo che fa di una comunicazione distorta il proprio vanto e dell’ignoranza una virtù, Mann ci ricorda che il pensare è un atto di coraggio. E che leggere è forse l’unica forma di libertà rimasta.

04 giugno 2025

18 ANNI DI RAGIONEVOLI DUBBI





Era l'agosto del 2007,18 anni fa,quando l'Italia venne emotivamente colpita da quello che poi sarebbe stato conosciuto come il "caso Garlasco".Nell'antivigilia di ferragosto di quell'anno,il 13 agosto,Chiara Poggi,una ragazza di 26 anni,venne trovata uccisa in una pozza di sangue nella sua villetta di Garlasco,un paese di poco più di 8000 abitanti in provincia di Pavia.Dopo 2 assoluzioni in primo e secondo grado venne dichiarato colpevole Alberto Stasi,fidanzato di Chiara.

Oggi,dopo 18 anni,quel caso è stato riaperto dalla Procura di Pavia,in base a presunti nuovi elementi.Nell'opinione pubblica nazionale si è così creato sconcerto e disorientamento difronte alla riapertura dell'inchiesta che si riteneva chiusa con la condanna di Alberto Stasi.E per chi crede in uno stato di diritto viene da chiedersi:se il "caso Garlasco" è stato riaperto dopo così tanti anni,può essere che altri casi giudiziari del genere siano riaperti ?E se sì quanto è giusto che duri un processo ? E ancora:non si può esser sicuri nemmeno che una condanna inflitta con sentenza passata in giudicato sia giusta e certa ?

Già,perchè a ricordare tutti i "cold case" italiani,tutti i casi giudiziari degli ultimi 40-50 anni restati irrisolti o apparentemente risolti ma che ancora suscitano dubbi e perplessità sulla giustezza delle sentenze,c'è un qualcosa di più generale che sta avvenendo.Avviene cioè che in questo nuovo incerto tempo che viviamo è come se fossimo in un'atmosfera sospesa,un generale clima di azzeramento di entusiasmo e fiducia,di declino,morale e sociale nel quale è maturato un senso diffuso di sfiducia nel futuro e verso le istituzioni del Paese.E nella più generale crisi di fiducia e disistima delle istituzioni,è la giustizia a subirne i danni più rilevanti.E questo è grave per tutta la collettività,perchè in un Paese progredito la giustizia è istituzione irrinunciabile:essa garantisce l’osservanza delle regole,senza distinzione di razza,sesso, religione, appartenenza politica,e quindi uguale per tutti. Il sistema delle norme alla cui tutela la giustizia è posta,disciplina la convivenza civile: allorquando viene violato, si instaura un processo finalizzato a ristabilire l’equilibrio sul quale si incentra il rapporto tra i cittadini.Ed è perciò essenziale che questo meccanismo sia capace di dare risposte corrette:ogni errore non soltanto perpetua la violazione della regola ma crea ulteriori squilibri,suscita risentimento e diffonde sfiducia.

Certo,l’errore è parte dell’agire umano e neppure la giustizia sfugge a questa logica.Ma proprio per l'importanza del suo ruolo,quando la giustizia sbaglia si diffonde lo sconcerto: la responsabilità di chi è stato condannato con sentenza definitiva viene sovvertita. L’illecito, che si riteneva essere stato risolto nella convinzione di avere punito il colpevole,torna a essere un fatto irrisolto.Ed ecco che questa incertezza produce dolore,sfiducia e rabbia:in chi credeva di vedere avuto almeno parziale sollievo con la condanna del responsabile;in chi è stato ingiustamente punito;in chi si trova ora al centro delle accuse.

È quanto è avvenuto con la riapertura del caso del delitto di Garlasco:l’inizio di nuove indagini a distanza di 18 anni sconvolge quella certezza di una giustizia finalmente fatta con la condanna di Alberto Stasi.Ed ora che tutto viene rimesso in discussione è difficile immaginare quali siano i sentimenti dei genitori di Chiara,quale sia la condizione di Stasi che ha già scontato 10 anni di carcere e quale sia la sofferenza di Andrea Sempio,il nuovo indagato.Ma grande è lo sconcerto che s'ingenera anche nel cittadino e che produce sfiducia nella magistratura.

Proprio per evitare situazioni del genere,il legislatore ha introdotto una precisa norma:il giudice condanna solo se l’imputato risulti colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio"(art. 533 Codice Procedura Penale).Ed è questo il cardine di uno stato di diritto:quando le indagini non sono riuscite a fornire la prova certa della responsabilità di un individuo si deve procedere alla sua assoluzione,e quella che potrebbe sembrare la "debolezza" del sistema giudiziario ne rappresenta invece la forza; l’irrisoluzione del delitto è il prezzo che si deve pagare per evitare l’incertezza della condanna, suscettibile di produrre effetti ancor più gravi e dolorosi.E nota è la massima:"meglio un colpevole in libertà che un innocente in galera".

Il caso di Garlasco,allora,non è solo un caso di cronaca giudiziaria.Non è neppure e soltanto la conseguenza di indagini condotte con pressapochismo e superficialità e di un interrogatorio fatto a Stasi con metodi,a dir così,non proprio "garantisti".Forse è "anche" questo ma non è "solo" questo;è soprattutto un’enorme questione posta al cuore dello Stato di diritto e del tessuto della democrazia. 

Finora c'è un condannato con sentenza definitiva,Alberto Stasi, che si è sempre proclamato innocente e che due volte è stato assolto, prima di venire condannato definitivamente in Cassazione.Gli avvocati della famiglia della vittima invitano a non rinnovare oltre il comprensibile,straziante dolore della famiglia,e a fermarsi davanti a quella sentenza di condanna per omicidio volontario,pronunciata in base ai principi della Costituzione.Ma pur nel rispetto di quell'indicibile dolore è proprio quella Costituzione che impone che tutti gli imputati siano ritenuti innocenti fino a una sentenza definitiva di condanna che va pronunciata,appunto,“oltre ogni ragionevole dubbio”,e cioè quando i giudici abbiano acquisito la convinzione che la colpevolezza dell'imputato sia così solida da escludere il sia pur minimo dubbio razionale sulla sua responsabilità.Ma quella convinzione di colpevolezza proclamata così forte nel giudizio di Cassazione,così forte poi non è se oggi è la stessa magistratura competente a dubitarne tanto da riaprire l’indagine.

Ecco perchè la riapertura di questo caso mette in luce tutta una serie di questioni politiche ma anche giuridiche e di civiltà del diritto che risaltano dalle parole di alcuni giudici che assolsero Stasi in primo e secondo grado.Quei giudici,commentando oggi i fatti e le decisioni di allora,dicono un qualcosa che sembrerebbe scontato inuno stato di diritto,e cioè che senza la certezza di una colpevolezza,c'è l'obbligo di assolvere.Quei giudici assolsero Stasi non perché era certi della sua innocenza,ma perchè non erano sicuri della sua colpevolezza.E' tutta qui la base di uno Stato di diritto:per assolvere basta un dubbio,per condannare serve la certezza.

Certo,è comprensibile ed umano sentirsi dalla parte della vittima e di chi la piange.E tuttavia, la cifra di una democrazia fondata sullo Stato di diritto si misura principalmente non per come sa dare una consolazione qualsiasi alla memoria delle vittime e ai loro cari, ma per come sa garantire gli imputati, prima e dopo che siano giudicati colpevoli.E cioè non dobbiamo pensarci o sentirci dalla parte di Chiara Poggi o dei suoi cari che giustamente la piangono,ma dobbiamo pensarci imputati alla sbarra per il suo omicidio. Immaginare che potremmo essere noi,da innocenti,a trovarci condannati ingiustamente o che in quella posizione orribile potrebbe trovarsi qualcuno al quale vogliamo bene.

Nelle prossime settimane o forse addirittura nei prossimi anni sapremo quale sarà stato l'epilogo di questo caso.Nello stesso tempo capiremo l'eventuale fallimento o meno di un sistema giudiziario.Ma la cosa più importante,anche se difficile da accettare sarà sempre e solo una:nessuno può essere condannato se non viene superato ogni ragionevole dubbio.Valeva per Stasi,vale per Sempio,e per chiunque altro.Fino ad arrivare all’estrema conseguenza,per cui non potendosi dire con certezza chi abbia ucciso una ragazza nel mezzo di un giorno d'agosto,ci sarà un assassino che sarà libero,ma almeno nessun innocente finirà in galera.Anche questo è Stato di diritto.