Sono questi i giorni del coronavirus,la pandemia che dalla Cina si è presto estesa in tutto il mondo,e che in tutto il mondo sta creando allarme e vere e proprie paure per la malattia,certo,ma anche diffidenze e forme di razzismo verso l'altro.Decine di migliaia di infettati in Cina,sempre di più anche in Occidente.Con tutto quello che ne consegue anche per il sistema economico mondiale,perchè nel mondo globalizzato dell'economia mondiale ogni cosa che succede dall'altra parte del mondo riguarda l'economia di tutti gli Stati e in ultima analisi la vita quotidiana di tutti i popoli della Terra.La produzione industriale,gli interscambi commerciali,i trasporti di merci e persone sono bloccate,ferme chissà fino a quando.Quando leggi queste notizie sul coronavirus,sulla nuova peste dei giorni nostri,ti sembra di rileggere le pagine del romanzo di Camus "La Peste".Nel romanzo Camus immagina una città ,Orano,nella quale è scoppiata un'epidemia di peste,che ogni giorno fa decine e decine di morti.Eppure Orano,all’inizio del romanzo,viene descritta come una città tipicamente moderna,evoluta,e la sola idea che si debba morire è pensiero estromesso dalla conversazione pubblica e dalla socialità,diventa un tabù impronunciabile,un ospite lugubre che non può essere nominato,secondo la concezione dell'Uomo d'oggi di una modernità e di uno sviluppo ad ogni costo.La gente è tutta presa febbrilmente dai propri affari e dalle proprie distrazioni edonistiche,e non si pone alcuna domanda sulle questioni esistenziali,sul suo attuale modo di vita.E quando accade che qualcuno muoia,lo deve fare in silenzio,senza dar troppo fastidio,perchè non molti se ne curino,e se proprio devono farlo,che muoiano in qualche anonima casa di riposo.Perchè il morire,nella Modernità,è affare imbarazzante,un accidente noioso,che si cerca di consumare in modo veloce e penoso.
"Ma a Orano gli eccessi del clima,l’importanza degli affari che vi si trattano,il poco rilievo dell’ambiente,la rapidità del crepuscolo e il genere dei piaceri,tutto richiede una buona salute.Un malato vi si trova proprio solo.E si pensi allora al moribondo,preso al laccio dietro centinaia di muri crepitanti di calore mentre nello stesso minuto tutta la popolazione,al telefono e ai caffè, parla di tratte,di polizze e di sconto;s’intenderà quanto vi può essere di scomodo nella morte, anche moderna, quando sopravviene in un luogo sì arido.
Questa frase del romanzo sembra raccontare la società dei giorni nostri,tutta presa solo e soltanto negli affari e nell'affarismo,nell'edonismo più sfrenato,nell'egoismo e nel respingimento dell'altro.Senza nessuna cura per il Creato,che poi null'altro è se non la possibilità per l'Uomo di avere un Futuro.Ma poi la peste,naturalmente,cambia tutto:chiunque è un potenziale malato,un potenziale moribondo.La morte,ospite sinistro e discreto in tempo di salute,che può essere ignorato o estromesso dalle distrazioni dell’edonismo,in epoca di epidemia diventa così prossimo e pressante da non poter più essere ignorato.La peste è la morte imprevedibile e incontrollabile che ridisegna le priorità e i progetti dell’uomo moderno,che pretendeva di prevedere tutto e tutto controllare.La peste spazza via tutta la vanità a cui una città moderna ha votato la sua esistenza:gli affari,i traffici,le distrazioni,il lusso,il piacere,l’ebbrezza dell'effimero.Essa riporta tutto all’essenziale.In un contesto di abbondanza,di benessere,non ci si pensa mica;ma di fronte alla possibilità quotidiana,probabile della morte,ogni uomo deve guardare dentro di sé,cercando le ragioni profonde che lo spingono ad andare avanti,porsi il quesito su come fin qui ha vissuto,su quello che non ha fatto,sul tempo che adesso non c'è più e cosa farebbe per averne ancora(impossibile qui non ricordare la confessione di Antonius Block con la Morte nel film "Il Settimo Sigillo" di Ingmar Bergman).
E' qui che emerge la concezione filosofica del romanzo.Per Camus l’unica cosa che conta,l’unico vero fondamento sostanziale,è il Prossimo,ovvero l’uomo vero:quello che incontro girando l’angolo,nella sua concretezza e irripetibilità.È inutile fare grandi appelli per la difesa dell’umanità,della giustizia e dell’uguglianza se poi,dopo la frenesia di una giornata,tra i mille impegni di ogni giorno,non guardiamo all'uomo all'angolo della strada,magari quello coperto da uno strato di stracci e cartoni.Aiutare il prossimo non significa compiere gesta eroiche,ma spesso semplicemente“farlo esistere”:apprendere il suo nome,interessarci alle sue storie,o ascoltare le parole dell'anziano,del debole e del povero.Niente di che.Tenere solo a mente,che egli è un uomo,proprio come noi e che noi siamo lui,come riflessi in uno specchio.Queste riflessioni non sono affatto banali come non lo erano ai tempi in cui Camus scriveva "La Peste".Allora si usciva dall'immane tragedia della Guerra,dello Sterminio,della Shoah,eppure allora,e purtroppo ancora oggi,non erano e non sono pochi quelli pronti a giurare che,per il buon fine di una causa,per addivenire a uno scopo più grande– la Rivoluzione o il Progresso o la Modernità–si poteva ben sacrificare "qualcuno" oppure,come ai giorni nostri,fare violenza alla Natura,per trarne immediati profitti economici.Invece Camus vede nell'uccisione anche di un solo uomo(e la morte non è solo quella fisica,ma anche quello dell'abbandono e della solitudine del debole e del bisognoso)la morte di ogni idea di Rivoluzione e di ogni Progresso.E' questa la domanda che Camus si pone ne "La Peste":senza sistemi morali di riferimento,senza ideologie e narrazioni che distinguano Giusto e Sbagliato,il Bene dal Male,cosa può orientare le nostre azioni,i nostri gesti?Cosa può edificare la nostra morale quotidiana,quella che ci consente di vivere?Sono i due personaggi principali del romanzo,il medico Rieux e il capo dei volontari Tarrou che esprimono questi valori.I due sono i personaggi che in modo instancabile si danno da fare per debellare il morbo.Tarrou si spende tanto per salvare ogni uomo dalla peste per il suo senso di fratellanza e di istintiva compartecipazione per le vicende dell’altro,per i suoi dolori e le sue sofferenze.Egli non aiuta l’uomo per una morale astratta,proveniente dal cielo o dal futuro:aiuta un uomo perché quell’uomo malato di peste,semplicemente, poteva essere lui.Egli vorrebbe essere,come dice a un certo punto,un santo senza Dio.Così come Camus stesso che ricusò sempre la possibilità di Dio.Allo stesso modo il medico Rieux.Quando Tarrou gli chiede quale sia la motivazione che spinge lui a curare gli appestati,egli dà una risposta simile.Non ha riferimenti metafisici e morali granitiche,non crede in Dio o in nessuna ideologia.Sa solo di essere un dottore,e sa che quello che deve fare è curare i propri pazienti,fare bene il proprio lavoro,per fare il proprio bene quotidiano.La cosa veramente importante è,come lo stesso Camus scrisse nel "Mito di Sisifo":Trovarsi davanti al mondo più volte possibile".
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